Nel nome del padre e della figlia. Motore di ogni storia, la donna al cinema se la passa piuttosto male come madre, molto meglio come figlia. Nel momento in cui un bel film italiano (“Il tempo che ci vuole”, di Francesca Comencini) onora il ruolo salvifico del padre per una figlia in difficoltà, le “Giornate del Cinema Muto” di Pordenone compongono, in curiosa sintonia temporale, una silloge di rapporti familiari in cui dolcissimi vedovi si struggono per la felicità delle figlie (“La sultane de l’amour”, di Charles Burguet e René Le Somptier, “The winning of Barbara Worth”, di Henry King) o lasciano ricordi incancellabili. La madre, quando c’è, è colpevole (“Three Women”, di Lubitsch), trascurabile (“The pride of the clan”, di Maurice Tourneur) o dolorosamente ininfluente (“Driven from Home”, di James Young). Non che siano sempre esemplari i rapporti fra il “genitore 2” (quello “incertus”) e la figlia: a volte sono in stile Matarazzo. (“Driven from home”) o “Signora delle camelie” (“The pride of the clan”), ma di padri orrendi senza rimedio c’è solo quello di “Vanina”, deplorevole versione tedesca del racconto di Stendhal che incomparabilmente meglio avrebbe poi tradotto in immagini Roberto Rossellini (“Vanina Vanini”). Ed è comunque lui, il padre imbecille dei primi casi, a tornare sui suoi passi, restituendo serenità a chi a causa sua l’aveva persa. In extremis, come vuole la legge del mélo. La moglie/madre, invece – con cappello o senza cappello, in salute o con il cuore in affanno – ricorda il gioco di parole di Carmelo Bene: “signora/s’ignora”.

The red woman, di D. W. Griffith

Corsi e ricorsi. Potremmo essere tentati dall’attribuire tutto questo alla quasi assenza di figure femminili nel board delle Giornate pordenonesi, dove una sola donna, in effetti, Piera Patat (tra i fondatori del festival, regina del catalogo e del programma), siede fra gli otto componenti del Consiglio Direttivo. Presidente delle Giornate e della Cineteca del Friuli è il gemonese Livio Jacob; direttore lo storico Jay Weissberg, americano; direttore tecnico il critico Carlo Montanaro. L’unica donna vista sul palco in questi giorni è la giovane argentina Lucia Ciruelos Rodriguez, vincitrice del premio assegnato al migliore fra i saggi di diploma dei ragazzi del Collegium (sorta di Erasmus per alunni delle scuole di cinema di tutto il mondo istituita dalle Giornate). Titolo “The explanation of a methamorphosis: a reflection on two films that changed me duringLe Giornate del Cinema Muto’ ”. Dove le donne dominano, come di consueto, i settori dell’organizzazione e della logistica, dell’accoglienza e dell’ufficio stampa. Intendiamoci, con qualche timida eccezione (Torino, Trieste, Roma), è così un po’ in tutti i festival, a partire da Venezia. Parliamo di un settore in cui il “no woman, no panel” è una battuta di spirito. E tuttavia potremmo, dicevo, ma non terremmo conto del tempo (quel tempo, non il nostro) e di Freud. Proprio in quegli anni zio Sigmund illuminava i rapporti contrastati fra padri e figli, fra madri e figlie, ma non c’è bisogno di risalire a lui per ritrovare oggi quei contrasti e quei punti d’appoggio.  Potremmo, anzi, rovesciare la situazione: dopo decenni di drammatizzazione del rapporto padre/figlio, di leggende sulla “sorellanza” e di equanime “disonora il padre e la madre” – anni a trazione culturale maschile – questo riemergere nel discorso cinematografico della relazione padre/figlia connota, pure in presenza di panels senza women, l’affermarsi di una narrazione femminile. Francesca Comencini che isola il suo rapporto col padre all’interno di una famiglia risolta e numerosa (padre, madre e quattro figlie), scontornando tutto il resto come non esistente, rimanda a un paradigma antico. Le Giornate di Pordenone ci ricordano che il mondo non è nato cinquant’anni fa.

Figura 2 “The Winning of Barbara Worth” (“Fiore del deserto”), di Henry King.

 

Il vizio del cinema (muto). Riuscire per 43 anni, e in prospettiva per altri quaranta, a raccogliere in un piccolo comune del Friuli un migliaio di persone da tutto il mondo (quest’anno c’era anche una piccola delegazione uzbeka) per otto giorni in cui vedere e parlare, dalle 9 di mattina a mezzanotte e oltre, di cinema muto non è cosa da poco. Se il cinema è un vizio, come dice Gianni Amelio (“Il vizio del cinemaVedere, amare, fare un film”, Einaudi, 2004) le “Giornate del Cinema Muto” di Pordenone ne sono la pantografia (in grande) istituzionalizzata. La celebrazione di un vizio al quadrato, preciso e limitatissimo essendo, nel tempo e nelle forme, il suo oggetto. Il cinema muto copre infatti il periodo che va dal 1895 (l’arrivo del treno dei fratelli Lumière) al 1929, anno del cambio d’epoca forse più rapido nella storia delle arti. Nel 1928 c’erano solo film muti, nel 1930 ci sarebbero stati solo film parlati. Spietato e inesorabile. Dal pianista in sala alla colonna sonora. Dalle didascalie che traducevano un ventesimo dei dialoghi al cinema parlato.

Unica eccezione, importante e clamorosa, quella di Chaplin, che ci mise dieci anni per passare al parlato con ‘The great dictator“. Non aveva bisogno di nessuno perché faceva tutto da solo, impiegava anni per fare un film e nei dieci anni che precedettero la guerra ne girò due, scrivendone le musiche (questa la novità sonora), ma rigorosamente muti: “Luci della città” e “Tempi moderni”, nientemeno. Nel ’40 il primo film parlato, “Il grande dittatore”, in cui mostrò di sapere molto più di quanto la maggioranza degli americani sapesse su quanto avveniva in Europa. In “Luci della ribalta”, nel ’52, chiamò a collaborare il primo dei suoi rivali degli anni 20, Buster Keaton, il genio assoluto che il sonoro aveva artisticamente ferito a morte. E fu una meraviglia, l’ultima prima del trasferimento a Vevey (una vera e propria cacciata dagli USA).

Figura 3 King Vidor e Lilian Gish sul set di “La Boheme”.

Al macero. Giovane – molti anni fa – mi ferì l’apprendere con spietata sincerità ciò che in fin dei conti avrebbe dovuto apparirmi ovvio: il destino naturale di un film è il macero. Non di tutti, chiaramente. Una selezione, che era bello immaginare sapiente e consapevole, avrebbe potuto nel tempo salvare i più importanti con l’aiuto della tecnica. Ma il supporto del cinema è un’ala di farfalla, diceva Pasolini, e lo riscontravamo nelle ferite che subiva la pellicola passando di mano in mano. Senza contare i tagli di censura, quella ufficiale come quelle fai-da-te perpetrate nei vari Nuovo Cinema Paradiso. Supremo paradosso: in tutto il mondo i registri di censura sarebbero diventati – e ancora sono – la vera e insostituibile anagrafe battesimale di ogni film. Indispensabile ad ogni restauratore in cerca di dati sulla struttura originale, metro per metro, inquadratura per inquadratura, di ogni film.

Non era immaginabile in quegli anni un’ipotetica Cineteca di Alessandria, memoria cinematografica del mondo. Troppo ingombrante un film, rispetto al libro. A ventiquattro fotogrammi al secondo, cinque minuti di girato sono un centinaio di metri di pellicola. Un normale film di un’ora e quaranta sono (erano) due km di pellicola, da ristampare periodicamente: otto o dieci enormi “pizze” e costi insostenibili. Il digitale ha cambiato tutto, o quasi. Con qualche problema, che un po’ per celia, un po’ per non morir, induce talvolta a rimpiangere qualcosa (solo qualcosa, per carità, non siamo passatisti) delle difficoltà di prima.

Lo vediamo con le nostre macchine fotografiche. In era analogica uno scatto era pensato, quelli non riusciti si scartavano e un numero gestibile di album fotografici dava conto della vita di una famiglia. Adesso che la macchina digitale consente un numero praticamente illimitato di scatti, per la maggior parte casuali, il ritorno dalle vacanze è un rito familiare in cui davanti al televisore di casa, con una musica tipo filodiffusione, si scaricano le foto di un mese e dopo un po’ ne hanno tutti abbastanza. Al cinema il sogno di Zavattini (la cassetta acquistata dal tabaccaio e la possibilità per chiunque di fare il proprio film) si è infranto nel momento in cui si realizzava. Tutti possono fare il loro film, però se lo guardano anche fra parenti. La produzione è esplosa. In un tempo in cui la gente va molto meno al cinema si produce un numero enormemente maggiore di film, che costano moltissimo perché si è alzata a dismisura l’asticella delle pretese spettacolari. Fra sale e piattaforme, fra cinema e televisione (le serie), la richiesta di quello che chiamiamo cinema è cresciuta a dismisura, come le ambizioni sbagliate di un mondo che campa, ai piani bassi, di sovvenzioni e pensioni (quelle di genitori e nonni), sperando di indovinare la start up giusta, e ai piani alti di televisione, merchandising ed evasione fiscale. Ma i piani alti sono finanza internazionale.

Figura 4 “Three bad men” (“I tre birbanti”), di John Ford.

Viene in mente la storiella che Bruno Lauzi raccontava, da par suo, nei suoi spettacoli di cabaret. Quella dei due vecchi amici che si incontrano dopo tanto tempo. Uno ha fatto i soldi e si vede, l’altro appare vistosamente a mal partito: stropicciato, claudicante, addirittura abbottato.

Cosa ti è successo?”, chiede preoccupato il primo.

 “Niente, cosa vuoi mai, le solite cose.”

 “Come le solite cose?”

“Lavoro nei circhi, circhi importanti. I maggiori. Faccio l’’elephant cleaner’”

“Cioè?”

“Sai che c’è il numero degli elefanti. Si alzano in piedi, si ingroppano (nel senso buono), fanno le piramidi. Come puoi immaginare lo sforzo produce, di quando in quando, certi effetti. Io passo e spazzo.”

“E le botte in faccia?”

“Beh, ogni tanto ci capiti sotto. Ci sta”.

“Ma no che non ci sta! Vieni a lavorare con me. Sto cercando gente per la mia azienda, vuoi mettere?”

“Vorrai scherzare, spero. Sta a vedere che adesso lascio il mondo dello spettacolo!”

Ecco, comincio a vederne molti, ai piani bassi, di “elephant cleaners” che si sentono colleghi di Fellini, aspettando la pioggia per non piangere da soli. E non c’è niente da ridere.

Figura 5 “Saxophon-Susi”, di Carl Lamač

Macero addio. Oggi con la digitalizzazione – che significa smaterializzazione – le possibilità di conservazione e recupero di ciò che si è salvato dal macero sono praticamente illimitate. E’ un lavoro certosino, di ricerca nelle cineteche di tutto il mondo, ma si può fare. L’utopia della Cineteca di Alessandria sembra a portata di mano. Teoricamente (Dio non voglia!) tutto può essere sottratto al fantasma del macero. Anche “Fantozzi in Paradiso”, anche “Chiavi in mano”. Il cinema diventa come il maiale per Benigni: non si butta via niente. Più che una lusinga, una minaccia, con i ritmi attuali di produzione. Il rifiuto post sessantottesco di ogni selezione porrà, lo sta già facendo, a enti pubblici e istituzioni un problema antico: chi ha il diritto, caduto il limite tecnologico, di decidere cosa restaurare e cosa no, con i fondi sempre più cospicui e le competenze sempre più brillanti e attrezzate di cui dispongono a questo fine le cineteche di tutto il mondo? Chi avrà il coraggio di farlo, gestendo fondi pubblici, nel clima di disprezzo che circonda un po’ dappertutto le élite culturali. Per un festival come le Giornate di Pordenone si aprono un campo di enorme vastità e un orizzonte di decenni. Ma il compito che si prospetta ai selezionatori è sempre più difficile: scegliere, nel mare magnum di ciò che ormai si restaura. Nel cinema dell’abbondanza, di tutto meno che di spettatori, una nuova vena aurifera stanno diventando gli eventi. Una proliferazione di festival, sempre più frequentati, dove vedere film che nella maggior parte dei casi non usciranno da lì. Quello di Pordenone è un caso in questo senso esemplare.

 

Figura 6 “Il quarantunesimo”, di Jacov Protazanov.

Ci salveranno gli eventi? Le Giornate del Cinema Muto sono una piccola enclave internazionale in territorio italiano. Il personale (preparato e gentilissimo) è italiano, ma la lingua che vi si parla è l’inglese. I partecipanti italiani sono in minoranza; la maggioranza sono tedeschi, inglesi, francesi scandinavi, americani (con una vera e propria “ambasciata” a Berkeley); quest’anno anche sudamericani e uzbeki. Sono l’unico festival in cui un accreditato può vedere in teoria tutti i film in programma. La sede è unica (il teatro Verdi) e per otto giorni il programma viene sciorinato nella sua integralità: 13/14 ore al giorno con un’unica interruzione quotidiana fra le 19 e le 21. Senza contare i seminari e la fiera del libro. Va da sé che nessuno sano di mente può coltivare un’ambizione del genere, ma è la regola del festival: proiettali tutti, ognuno riconoscerà i suoi. Soprattutto le Giornate sono un festival di impronta teatrale, dove tutti i film, nessuno escluso, godono di un accompagnamento musicale dal vivo. Il pubblico che si spella le mani al termine della proiezione applaude il film, certo, e il lavoro dei restauratori, ma in primo luogo i musicisti, Chiamati e acclamati come attori alla fine della rappresentazione. Le prime tre file di poltrone vengono tolte per far posto al golfo mistico, la seconda galleria ospita, in fondo, la cabina di proiezione. Squisitissimi orchestrali, appartenenti a due formazioni, si alternano nell’accompagnamento.

 

Figura 7 Harold Lloyd e Jobyna Raiston in “Girl shy”, di Fred Newmayer e Sam Taylor.

 

Figura 8 “La sultane de l’amour”

Tra film trascurabili, che giustificano le considerazioni che facevo prima, curiosità etnologiche (anche una dei coniugi LévyStrauss) e sconosciute finezze (“Il quarantunesimo” di Protazanov, o la personale di Anna May Wong, singolare figura di Louise Brooks cino-americana) irrompono autentici gioielli, di modernità e godibilità impressionanti. Qualcuno è apparso, in anni più o meno recenti, nell’unico festival che accoglie film del genere – quello bolognese del Cinema ritrovato – e qualche altro potrà esserlo in futuro, nonostante quel po’ di gelosia esclusivista che traspare fra le due manifestazioni. Qualcuno potete trovarlo anche su You Tube, ma non avrete neanche la più pallida idea di cosa possa essere la loro visione nel contesto delle Giornate. E mai chi li ha ammirati, divertito e commosso come succede di rado, perché si debbano spendere tanti soldi pubblici per spettacoli così incantevoli e non farli girare, non moltiplicarne le riprese. Il delizioso “SaxophonSusi” del ceko Carl Lamač, lo strepitoso “Girl Shy” di Fred Newmeyer e Sam Taylor (con Harold Lloyd), il già citato “La sultane de l’amour” da un racconto delle “Mille e una notte, il western femminista “The winning of Barbara Worth” di Henry King, sono autentiche epifanie cinematografiche. Il discorso vale anche per Bologna, di cui resiste il ricordo di una sublime “Lady Windermere” di Lubitsch al teatro Manzoni, una sera che pioveva e si dovette rinunciare a Piazza Maggiore (ma onestamente fu meglio così). Produzioni uniche, figli unici di madre vedova, meraviglie per eventi. Anzi, per unico evento. Ovvero, come resuscitare la bandita “aura” nell’epoca della riproducibilità tecnica (e delle stagioni musicali). DVD?  Magari. Sarebbe già qualcosa. E’ o non è folle tutto ciò?