SULLO SCUDO

 

Una calda giornata primaverile giungeva al termine. Tutti i pazienti dell’ospedale mobile erano già operati e bendati. Da tempo nelle chat per i messaggi urgenti non avevamo informazioni sul possibile arrivo di feriti. Per me questa era l’occasione per prendermi una piccola pausa dal solito trambusto medico.

Team chirurgico dell’ospedale mobile (foto di Svitlana Galych)

In questi momenti, ti godi appieno il riposo e ammiri ciò che vedi intorno a te. Ti da gioia uno scoiattolo che salta su un albero nel vecchio parco dell’ospedale. Un raggio obliquo del sole, che fa raggiugere il cielo, scalda l’anima. La valle del fiume, che scorre solenne nelle vicinanze, accarezza lo sguardo…

Un momento di relax per l’autrice a contatto con la natura (foto di Svitlana Galych)

 

Un momento di relax per l’autrice a contatto con la natura (foto di Svitlana Galych)

 

 

“Stiamo portando un 300[1]. Grave. Saremo lì tra un’ora”. La notifica nella chat dei messaggi urgenti distoglie dall’ammirare la natura e riporta alla realtà della guerra.

 

L’equipe medica, in servizio ormai dal terzo anno, conosce bene le sue funzioni. Quindici minuti prima del probabile arrivo del veicolo con i feriti, ognuno ha preso il proprio posto secondo i compiti assegnati.

 

Il crepuscolo ha una bellezza unica. Ma i medici adesso non sono distolti dal panorama. L’ora in cui avrebbe dovuto essere portato il ferito era già trascorsa. Alla domanda nella chat “Dove siete?” c’è silenzio.

 

Brutta, bruttissima la previsione! Se il paziente è grave, con ogni minuto in più la speranza di salvarlo diventa sempre più illusoria.

 

L’”ora d’oro” salvifica è già passata. Ma i medici non la perdono, quella speranza. Come si fa a farne senza? Di miracoli in medicina ne abbiamo visti tanti! In tanti siamo stati coinvolti noi stessi.

 

Un’auto medica polverosa, popolarmente chiamata “pagnotta[2]“, si ferma davanti alla rampa del reparto di accoglienza dell’ospedale.

– Un 200… non ce l’abbiamo fatta, – riferisce sordamente il medico di guerra.

 

La foschia della morte coprì la distesa. Il cuore fece un breve colpo e sembrò essersi fermato.

– Gli orchi hanno “i 200”, e il nostro è “sullo scudo[3]“, ripeto automaticamente la frase che una volta mi disse il rispettato capo di un grande ospedale.

– Esploso su una mina durante il bombardamento. Mentre era ancora vivo, – spiegava tranquillamente il medico, – mi parlava ancora. E poi… basta. La rianimazione per un’ora senza successo.

– Chi ha confermato la morte? – puntualizzo il necessario.

– Io, – rispose il giovane dottore con la testa quasi completamente grigia.

– Chiaro, – annuisco brevemente e gli parlo di ulteriori misure organizzative. L’ospedale accetta solo pazienti vivi, il corpo dell’eroe verrà trasportato all’ufficio del medico legale più vicino.

 

Dopo aver espletato tutte le formalità necessarie in questi casi, mi avvicino al corpo del soldato caduto per porgergli l’ultimo saluto.

 

Un ragazzino, giovanissimo. Il figlio di qualcuno. Corpo pallido, anzi, pallidissimo, e freddo, con gli arti inferiori completamente mozzati quasi all’altezza dell’inguine. La localizzazione dei distaccamenti è la parte peggiore. Due lacci emostatici che semplicemente non potevano fare il loro lavoro. I luoghi delle amputazioni sono tali che la costrizione dei lacci non è stata sufficiente per bloccare i vasi sanguini di grandi dimensioni. Sui moncherini degli arti strappati dall’esplosione sono presenti densi grumi di sangue al posto dei fasci vascolari. L’intero corpo del ragazzo era fittamente crivellato di schegge. Lesioni che non lasciano alcuna possibilità di vita.

 

Con la testa abbassata ringrazio mentalmente questa persona che ha dato la cosa più importante, la sua vita, per proteggere il Paese. Il suo compagno d’armi è in piedi accanto a me in silenzio, a testa bassa.

– Cosa si sa del ragazzo? – chiedo.

– Aveva appena compiuto diciannove anni. Era il suo ultimo incarico prima delle vacanze. Doveva andare a sposarsi, – mi spiegò il dottore.

– Il figlio di qualcuno, – dissi piano. – La mamma soffrirà…

 

È successo così che percepivo ogni ferito come il figlio di qualcuno, un figlio che sua madre sta aspettando. Vedevo la nostra missione medica congiunta come quella di salvare alle madri i loro figli. Che vuoi fare, questa è una variante della deformazione professionale. Trentacinque anni in ostetricia. Tutto quel che ho fatto prima della guerra e ciò che sto facendo qui, sono per il bene della Madre e del Figlio.

– Viene da un orfanotrofio, – mi ha detto il medico di guerra.

 

Da un orfanotrofio. Senza madre. Sembrava che il mio cuore si fosse fermato del tutto per un momento. Il nodo alla gola crebbe e l’anima pianse silenziosamente sul destino di questo ragazzo. Un soldato del suo Paese, che nei suoi brevi anni di vita non ha avuto l’amore di una madre. Che sua madre non piangerà mai. Non lo accompagnerà nel suo ultimo viaggio. Mi auguro che almeno a 19 anni abbia conosciuto l’amore di una ragazza, visto che stava per sposarsi.

 

– Orchi[4] maledetti! Vi odio! – le dita si strinsero involontariamente in pugni e tremavano per la tensione.

 

– Onore a te, soldato! Purtroppo gli eroi muoiono.

 

La sanguinosa guerra continuava e portava via nella sua bocca vorace i migliori figli del suo Paese. Gli Eroi.

 

Gloria agli Eroi!!!

 

Anno 2024, guerra

[1] Un 300 nel gergo militare significa “un ferito”, un 200 significa “un morto”. I termini si riferiscono all’epoca della guerra in Afganistan, quando il peso di un cadavere con la barra di zinco per il trasporto aereo dall’Afganistan nell’URSS era stimato in 200 kg, mentre un ferito con un medico di accompagnamento ed eventuali attrezzature era stimato in 300 kg.

[2] Il soprannome di UAZ-452.

[3] Con lo scudo o sullo scudo (greco ant. ἢ τὰν ἢ ἐπὶ τᾶς, lat. aut cum scuto, aut in scuto) è un’espressione fraseologica che significa una chiamata a vincere, raggiungere l’obiettivo o morire con gloria. Risalente all’Antica Sparta, dove si prevedeva che un guerriero ucciso venisse trasportato dal campo di battaglia sul suo scudo.

[4] Con il termine “orchi” in Ucraina vengono spesso chiamati i russi per le atrocità commesse nei confronti della popolazione civile sin dai primi giorni dell’invasione su larga scala.