Elegia americana (nella lingua originale Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis), best seller dal quale è stato ricavato da Ron Howard un film di successo, racconta la storia di una parte dei reietti americani di oggi, quei poveri conosciuti come hillbillies (in italiano: villani, montanari, bifolchi).
Ma il libro non è soltanto un successo editoriale, l’autore è infatti James David Vance, oggi vicepresidente americano, e i contenuti del suo racconto autobiografico possono spiegare molto sulle ragioni della vittoria a valanga di Trump nelle elezioni del 5 novembre.
Con un’affermazione netta, più di quella del 2016 contro Hillary Clinton, Trump conquista la maggioranza del voto americano, anche delle minoranze, la presidenza, i due rami del parlamento e la gran parte dei governatori. Ancora una volta quasi tutti i media mainstream e i sondaggi hanno sottostimato Trump, ancora una volta non hanno colto le tendenze elettorali, lo hanno sottostimato semplicemente perché non lo hanno mai amato e quindi questa stima errata sembra la proiezione del desiderio inconfessato di quei media e di quei sondaggisti.
L’accoglienza trionfale a Trump nella recente manifestazione al Madison Square Garden da sola raccontava più di mille sondaggi, mentre il suo vice narra in un libro che è un racconto sociologico la sua storia, ovvero le traversie dei poveri americani disprezzati dalle classi alte della East Coast. Leggendo questo libro a tratti commovente, accolto come una rivelazione dall’establishment culturale americano, recensito al suo esordio perfino da un riflessivo Bill Gates, si comprende come negli Stati Uniti il potere politico sia una lobby mille miglia lontana dalle aspettative dei diseredati d’America.
Chi non vuole vedere la realtà e consolarsi può invocare le caratteristiche negative del due volte presidente americano, il suo autoritarismo e paternalismo, la sua vena populista che hanno fatto breccia nell’elettorato. E descrivere i suoi atti di governo come i più dannosi possibili per gli Stati Uniti e il mondo intero, anche se la sua prima presidenza conta ad esempio il primato di non avere alimentato alcuna nuova guerra e non secondari successi nella gestione dell’economia.
Le categorie ideologiche di sinistra e destra non reggono, se osserviamo quale sia la natura del potere più profondo. Qual’è il pericolo reale, per la convivenza civile e per la pace, in un mondo in crescita accelerata come quello odierno, dove di fatto il predominio unipolare degli Stati Uniti, in crisi di identità, è arrivato alla conclusione, in una nazione che avrebbe urgente necessità di ricomporre il proprio quadro sociale?
Un Partito Democratico americano che cavalca le battaglie più lontane dalle aspirazioni del popolo e incassa l’endorsement di Dick Cheney e dei neocon (i conservatori americani più legati al complesso militare-industriale), utilizza l’arma giudiziaria contro i propri avversari politici e fiancheggia i poteri forti, rinforzando l’ossatura del sistema, può forse piacere agli elettori?
Qualcuno storce il naso pensando a compagni di viaggio come Musk, l’imprenditore più innovativo al mondo, senza il quale ad esempio oggi la NASA sarebbe solo il simulacro di quello che un tempo era, o Robert Kennedy jr., complottista per quella sinistra d’élite che l’ha emarginato dal potere per le sue legittime posizioni critiche sulla guerra e sull’invadenza di Big Pharma.
Forse sarebbe meglio parlare, come del resto gli osservatori riconoscono, di confronto tra forze del sistema, che la Harris rappresentava, e forze fondate su ideali americani, che il Partito Repubblicano sembrava aver dimenticato perché superati, ma evidentemente ancora vivi, tanto da caratterizzarsi oggi come un blocco politico-sociale anti-sistema.
Questa divaricazione tra valori creati a tavolino e scarsamente condivisi e una visione dell’America più tradizionale è la stessa che attraversa, bene o male, tutto l’Occidente, senza trovare una sintesi accettabile per un sistema pienamente democratico, rischiando di alimentare lo scontro civile tra visioni radicalmente contrapposte. La vicenda personale di Vance, prima osannato dai grandi media come l’Economist o il New York Times, poi spesso reinterpretato in negativo alla luce della scelta per il candidato repubblicano, ne è la riprova.
E l’Unione Europea? Nonostante sia abituata a mutuare le proprie decisioni in materia strategica ed economica dal partner d’oltre oceano, dovrebbe non farsi cogliere impreparata, ma al contrario cogliere l’occasione, utilizzando il proprio tempo e gli investimenti necessari per rivelarsi finalmente quel soggetto politico (attualmente la terza potenza dopo Stati Uniti e Cina) capace di una reale autonomia decisionale.
Immagine di apertura: Strada verso Middletown, Ohio, foto di Nathaniel Shuman, Unsplash