“Paris c’est une idée” (L. Ferré)

Figura 1 Ferré e scimpanzè.

A Parigi il monegasco Léo Ferré era arrivato nel ’34, a 18 anni, per laurearsi alla Sorbona. Tornato a Montecarlo, dove il padre dirigeva il personale del  Casino, pochi mesi prima dell’invasione tedesca, l’avrebbe ritrovata dopo la guerra, vissuta e cantata per più di vent’anni (“Paris canaille“, “Quartier latin“, ecc.) e salutata nel ’69 con l’ultimo leggendario concerto a Bobino. Poi, con la terza moglie e i quattro figli, il ritorno in Italia, paese della madre e delle memorie liceali ad Albenga, dove sarebbe morto, a Castellina in Chianti, nel ’93. Forse bisognerebbe viverle così, da lontano, le memorie delle città mito, che ci hanno visto allontanarcene, ancora giovani e forti.

Così del resto vivono la loro gli innumerevoli napoletani sparsi per il mondo. La sorrentiniana Parthenope, promettente antropologa, lascia Napoli a 33 anni per un incarico a Trento. La attende di lì a due anni alla “Federico II” il posto del suo professore e mentore. A Milano non fa freddo, diceva il napoletano del Pallonetto Giuseppe Marotta. A Trento ne fa di più, ma in quella facoltà di Sociologia Parthenope, nata in acqua come la sirenetta in zona Castel dell’Ovo, rimarrà per quarant’anni.

Figura 2 Vittorio Caprioli “Leoni al sole”

La Napoli di Sorrentino è quella degli anni fra il ’68 e l’83, così dicono le didascalie, ma non c’è una particolare ricerca di esattezza, né completezza storica nei riferimenti a quel periodo tragico e vitale (prima vitale poi tragico) in cui Napoli rappresentò un formidabile polo culturale europeo, prima di affondare in una progressiva discesa agli inferi. Tanto più vano sarebbe cercare in Sorrentino le memorie, la sensibilità, l’intrasmissibile sentimento del tempo di chi quegli anni li visse con venti, trenta, quarant’anni in più. Nato nel 1970, lui questa Napoli non l’ha mai vista se non con gli occhi dell’infanzia e con quegli stessi occhi continua a guardarla. Per lui Napoli è un’idea, come Parigi per lo chansonnier di “C’est extra“.

Oggi che il successo italiano di “Parthenope” incrocia le cronache della strage quotidiana di minorenni ai tavolini dei bar, e in una Napoli ridotta a campo di concentramento per chi non può permettersi di lasciarla torna più che mai d’attualità l’urlo di Eduardo ai giovani napoletani (“Fujitevenne!”), sarebbe facile irridere alla Partenope sentimentale di Sorrentino scambiandola per un’evasione nel pittoresco. Ma non sarebbe giusto. Intanto perché ci sono molti modi di raccontare una capitale come Napoli. E poi perché non è né cieca né ingenua l’apparente nostalgia di Sorrentino per quei suoi primi anni. Se in “E’ stata la mano di Dio” aveva raccontato la propria tragedia personale e la fuga da Napoli, in “Parthenope” libera il suo cinema dal grosso di quegli insopportabili tic stilistici che impacciavano i film precedenti. Se n’è accorto anche Crozza, che dalle nuove parodie toglie molte delle stravaganze contenute nelle vecchie (tipo “John Malkovich nudo in un frigobar”), fissandosi sulla lentezza (ma l’obiezione è banale: il ritmo va di pari passo con l’intensità delle sequenze e quello di “Parthenope” emoziona) e sull’elogio della noia (che è una battuta – “Parthenope” non è noioso – e per nulla scema: “mi sono innamorato di te / perché non avevo niente da fare”; l’amore ci prende per noia, più di quanto non siamo disposti a riconoscere).

Figura 3 Magritte

Questo non è un film. Parthenope, lo sappiamo, è un mito, quello della sirenetta suicidatasi in mare con le due sorelle per non essere riuscite ad attrarre Ulisse con il loro canto, facendolo finire sugli scogli, e riemersa nel punto in cui sarebbe sorto Castel dell’Ovo. Un romantico fallimento divenuto mito fondativo di una città. Con Virgilio il nome della sirenetta disperata diventa quello di una città: Napoli, la città nuova. E Partenope una città nata dal mito.

Parthenope” oggi è un film. O forse no. Come la pipa di Magritte che non è una pipa. Più che un film su Napoli, “Parthenope” non è un film su Napoli, ma cinema allo stato puro: produzione di immagini attraverso le immagini. Come la pipa che non è una pipa ma un quadro, “Parthenope” non è una città. È un’idea. Per Sorrentino quella di un meraviglioso, incantevole fallimento. Uno scrittore inglese lo racconta, una donna lo incarna, lo vive, lo accarezza, lo soffre, lo lascia. Lo rivivrà da lontano sottraendoglisi.

Parthenope” è uno straordinario panopticon, ancora la metafora del carcere a cielo aperto, che ha Castel dell’Ovo (e Villa Lauro) come torri di guardia. La macchina vi si muove orizzontalmente, come una carrellata di due ore, seguendo e anticipando i movimenti di Parthenope, la nostra guida, fisicità pura, e l’ampio respiro del golfo, che i droni sorvolano. Procedendo per quadri, i bracci penetrano in città, nei vicoli o nei bassi e poi ritornano a quel mare da cui tutto è nato e a cui tutto ritorna.

Figura 4 Affiche Cannes 2009

Parthenope” è un canto: “canterò i miei amori” (Pasolini), che sono molti. Raffaele La Capria, lo scrittore di “Ferito a morte”, della “bella giornata”, dei “Leoni al sole” (i vitelloni capresi del bel film di Vittorio Caprioli, dal romanzo) e John Cheever, lo scrittore gay interpretato da Gary Oldman, mito personale di Sorrentino. E poi Antonioni: la terrazza dell’”Avventura” (con le sue tende al vento, e Monica Vitti di spalle, fu manifesto del Festival di Cannes qualche anno fa) e la meno riproducibile, eppure ben reinventata a Capri, delle sequenze di “Zabriskie Point”: quella leggendaria delle tante coppie hippy amoreggianti nella californiana Valle della Morte su musica di Jerry Garçia. Il Fellini meno strapazzato e più emozionante. Il Lattuada dello zavattiniano “L’amore in città”: episodio “Gli italiani si voltano”, tradotto in centinaia di fotografie.

 

 

 

Figura 6 Luisa Ranieri

Inutile chiedersi se la Greta Cool di Luisa Ranieri sia o no Sophia Loren: mai lo si ammetterebbe. Molti particolari portano al sì; altri al no. Ma non me la prenderei troppo, nel caso; anche se fossi più devoto alla grande attrice di quanto non sia. Sophia sarebbe in questo caso un pretesto per dire tante cose che si pensano (che tutti pensano, non solo fra gli espatriati) ma non si dicono. Bisogna trovare un personaggio, immaginario ma non troppo, che le gridi e mostri nello stesso tempo il costo emotivo di questa dolorosa invettiva. “Siete poveri, vigliacchi, piagnucolosi, arretrati, rubate e recitate male. E sempre pronti a buttare la croce addosso a qualcun altro, all’invasore di turno, al politico corrotto, al palazzinaro senza scrupoli, ma la disgrazia siete voi, siete un popolo di disgraziati. E vi vantate di esserlo, non ce la farete mai… cari orrendi napoletani io me ne torno al Nord, dove regna il bel silenzio, dal momento che io non sono più napoletana, da molti anni. Io mi sono salvata, ma voi no. Voi siete morti». Oimè, se quest’è amor com’ei travaglia!

Figura 5 Silvio Orlando

Mentre il professor Marotta dello straordinario Silvio Orlando sembra proprio un caldo omaggio – certamente irregolare, come tutto in Sorrentino – a Gerardo Marotta, uno dei grandi partenopei del Novecento, rimasto a Napoli fino all’ultimo giorno, al suo “Istituto Italiano per gli Studi Filosofici”, e scomparso otto anni fa alle soglie dei 90 anni. Achille Lauro, invece, è Achille Lauro, con i suoi gesti entusiastici da venditore disneyano.

 

Il linguaggio. Sorrentino ha l’aria di non credere troppo a ciò che corre attraverso la comunicazione verbale. Non chiede alle parole la verità (figurarsi!) o la poesia (“mi fanno male i capelli”); del resto anche Antonioni, supremo architetto della visione, non si distingueva per i dialoghi. Per lui sono le immagini a trasmettere ciò che davvero importa. Vale la pena cercare una chimerica originalità nei dialoghi (“vaste programme”)? O è più interessante lavorare sui detriti del linguaggio in cui siamo immersi, fra milioni di Oscar Wilde dei poveri, tonnellate di frasi ad effetto, anche nel semplice porsi come spiritose. Tra verità essenziali che ci verrebbero negate, frammenti di stupidaggini finto originali, di massime demenziali o sciocche perfino quando autentiche. Come quella citata nel film e attribuita a Billy Wilder (“Per insegnare basta essere avanti di una lezione rispetto ai propri studenti”), sempre che sia vera. Una banalità d’autore, che oggi affonda nella massa di scemenze da social in cui siamo immersi. Quella che nei suoi film precedenti sembrava un’annoiata aforistica da club méditerranée (e magari lo era) diventa in “Parthenope” qualcosa che assomiglia a uno stile. Uno stile che in un bel film come questo raggiunge il suo punto più alto nella lezione del professor Marotta, una lezione lunga quindici anni e due terzi di film, sulla definizione di antropologia. Quella perfetta, da piccola enciclopedia portatile, data a Parthenope il primo giorno (“E’ quella che può permettersi”) e quella consegnata come un viatico prima del trasferimento a Trento: quindici anni trascorsi lungo “le vie che portano all’essenza” (Battiato). Per non parlare di certi lampi davvero ragguardevoli. Come quello dell’anziana dama di San Gennaro che si precipita dal vescovo un’ora dopo il miracolo mancato: “Eminenza, sono costernata! Ho saputo che il sangue non si è sciolto! Mi dica, che cazzo è successo?” D’altronde il vescovo Tesorone, si sa, “è un farabutto” (MarottaOrlando). “In che senso?”, chiede Parthenope. “In tutti i sensi”.

Concludendo. A me “Parthenope” è piaciuto. Perché rinuncia quasi in blocco a quella paccottiglia di “sorrentinate” che mandavano di traverso anche l’ammirazione per le sue cose migliori negli altri film. “Quasi” in blocco, ma quel che rimane, le “stranezze” (il vescovo lussurioso, l’enorme bambino tondo che sembra uscito dall’officina di Carlo Rambaldi, la maestra di dizione che mostra solo la bocca), sono sempre più cifra personale e sempre meno banale volontà di stupire. Per la prima volta, più ancora che nella “Grande bellezza”, ho visto due ore e un quarto di cinema sorrentiniano senza soprassalti di fastidio, appassionandomi e commuovendomi alla tirata della cantattrice calva e alle ruvidezze del professor Marotta, alla “bella giornata” dei “leoni al sole” e alle terrazze antonioniane, ai fellinismi per una volta veri ed emozionanti e agli scoramenti di Parthenope. Alle sue carezze, allo scrittore, alla cantattrice calva umiliata, al professore. Ma molta parte del film è una carezza, alla pelle e al cuore. E soprattutto agli occhi. Mi è sembrato bello il film, più maturo e in gamba l’autore. Molto altro ci sarebbe da dire, ma lo lascio a chi legge e al fervidissimo dibattito. Mai così vivo, da “C’è ancora domani” in qua. Ma una cosa ancora la voglio dire, spezzando un’ultima arancia per il film. Una cosa leggera (“Parthenope” è un film leggero, come quel foulard rosso al vento, buona per chiudere, su Sorrentino e il calcio. Non ha chiamato “10” la sua casa di produzione? Si sente, non a torto, un fantasista.

Calcio e canzoni. E’ nota la passione – almeno “palabratica”, avrebbe detto Gianni Brera – di Sorrentino per il calcio, il Napoli e Maradona. Molto in contrasto, però, con la narrazione sviluppata nei suoi film che ne accennano e che sono almeno tre prima di “Parthenope”. Per dire, nel primo (“L’uomo in più”) ispirato alla privatissima tragedia di un campione introverso, forse avvilito nelle sue aspirazioni a restare nell’ambiente dopo il ritiro (ma va’ a sapere), il calcio è un ambiente squallido, meschino, deprimente. Un mondo di strateghi da bar Otello di cui nessuno vorrebbe far parte. Come può vederlo uno che detesta il calcio.

E Maradona? Non sarà quel botolo zazzeruto che in “Youth” palleggia virtuosisticamente con una pallina da tennis in una spa per ricchi fra le montagne austriache? E’ questo, per Sorrentino, il “pibe de oro”? Il cuore di Napoli a cui sarebbe stato intitolato il San Paolo? Forse ci andrà meglio con “E’ stata la mano di Dio”, dove la sensazione di essere sfuggito alla morte grazie alla passione per Maradona, si lega però alla sciagurata fatalità che contemporaneamente a Roccaraso gli porta via entrambi i genitori. Già questo legare, sì, la passione per l’asso argentino alla propria salvezza, ma anche alla sfiga più colossale che possa capitare a un adolescente, denota quanto meno un sentimento duplice al riguardo. Duplicità che diventa visivamente clamorosa più tardi, quando il giovane Sorrentino, ormai prossimo a partire per Roma, si trova in mezzo alle feste per il secondo scudetto del Napoli. Una scena selvaggia che dovrebbe essere felice e invece ricorda (in peggio, e non per un limite di regia) quella di un film di Dino Risi: “In nome del popolo italiano”. Ma Risi è coerente: lui odiava calcio e tifosi. E’ Sorrentino che ha sempre detto di amarlo, salvo tradire in scene come questa un sentimento molto tiepido, quando non repulsivo, per il calcio, il suo ambiente e perfino il suo popolo. Rimaneva sempre il dubbio: ma a Sorrentino il calcio piace davvero o gli fa schifo?

Napoli 2023. Festeggiata dai suoi studenti al momento della pensione, Parthenope torna a casa. Ha 73 anni e il bel volto di Stefania Sandrelli, che ha preso il posto dell’incantevole Celeste della Porta. A Napoli, lasciato quarant’anni prima, il terzo scudetto sta “ammuinando” l’intera città. Timida, quasi spaurita, Parthenope inizia a percorrerla fra i tifosi in festa e Napoli la travolge. Niente a che vedere con il truce giubilo di “E’ stata la mano di Dio”. La “nave” impavesata dei tifosi attraversa una città tumultuante, la sua città ammattita. E Parthenope sorride, felice. Probabilmente ha per il calcio lo stesso trasporto che ho io per l’hockey su prato. Ma adesso è lì, a casa sua. E sta bene.

Je suis bien”, cantava Juliette Greco. E aggiungeva: “je suis malhonnête” (Brel). Bisogna essere (un po’) disonesti per star bene. Così Sorrentino. Probabilmente erano più vere le immagini della coscienza calcistica infelice degli anni passati, contraddetta a parole. Ma esiste una verità del cuore che non coincide sempre – anzi, quasi mai –  con quella reale. Per la prima volta nel regista napoletano pensieri e parole coincidono (non solo sul calcio) ed è importante per un artista. Allora, Parthenope, che cosa c’è? C’è che, come dice la canzone che ci porteremo a casa, mi sono innamorata di te. Il mio mondo è cominciato in te, il mio mondo finirà con te (sempre Paoli – e Bindi – da ascoltare rigorosamente nella versione BindiBertè. La meglio.