“Se decidono di uccidermi, vuol dire che siamo incredibilmente forti”. Alexei Navalny aveva previsto tutto. Lo aveva confidato a Daniel Roher, nell’appassionante film-documentario che avrebbe vinto l’Oscar nel 2022. Il titolo, semplicemente: “Navalny”.
E ora, che l’eroe è morto, è legittimo chiedersi: perché? Perché, dopo l’avvelenamento e il miracoloso recupero nel 2020, Navalny ha voluto lasciare Berlino e rientrare in Russia, a combattere una battaglia impari contro Putin e i suoi sicari, sapendo di andare incontro all’arresto, al gulag, alla morte?
Tornano alla mente le sue parole: “Non dobbiamo arrenderci. Il Male, per trionfare, ha solo bisogno che i Buoni non facciano nulla”.
Certo ci vogliono grandi ideali e un enorme coraggio, per affrontare i tuoi assassini, deridendoli. “A questi vecchi ladri – diceva Navalny – la propaganda non basta più: vogliono il sangue”. Parole che fanno dire oggi a Iegor Gran, dissidente esule a Parigi: “Alexei ha scelto di morire come Gesù. La lotta ai corrotti era la sua missione”. E trascinato dal paragone evangelico, Gran ha spiegato a Cesare Martinetti, che lo ha intervistato per “La Stampa”, che Navalny “considerava un segno divino essere sopravvissuto al veleno”. Convinto forse di essere invulnerabile. O più probabilmente di non poter sfuggire al martirio. In nome della libertà. Non tutto però è così lineare, così tragicamente razionale. Perché Navalny si sarà chiesto di sicuro se non fosse più utile combattere il regime di Putin lontano dalla Russia, libero di scrivere e di parlare, piuttosto che all’interno del suo paese, imbavagliato e imprigionato. E la risposta è sì: Navalny avrebbe dovuto scegliere l’esilio, invece di immolarsi in patria.
Ma la logica si ferma qui, e cede il passo al sentimento, all’epopea della grande anima russa. Perché Alexei Anatolevic Navalny era figlio della sua cultura, aveva negli occhi “il lampo di follia dei russi bianchi”: così amava dire Enzo Bettiza, ricorda oggi Aldo Cazzullo .
Un lampo di malinconica follia, velato di tristezza e di ombre, fantasmi che si affacciano nella mente. Come quelli del tennista russo Danil Medvedev, che avanti di due set nella finale degli Open d’Australia, smarrisce d’improvviso la sicurezza, comincia a ondeggiare sotto i colpi del nostro Jannick Sinner, e nelle pause al cambio di campo sembra fissare un punto imprecisato nel vuoto. E perde al quinto set.
Navalny ha combattuto contro le ombre, come un eroe che nuota contro la corrente, come un guerriero sull’orlo di un precipizio, in bilico fra esaltazione e disperazione. Ma in quegli occhi sempre più scavati, in quello sguardo sempre più provato, la luce piano piano si stava spegnendo. E lui sapeva che sarebbe finita così.
“Vi sono due categorie – spiegava Kirillov, uno dei Demoni di Dostojevski – quelli che si uccidono per tristezza, per rabbia, perché sono pazzi…mentre quelli che lo fanno a mente lucida, quelli sì, pensano molto”.
Pensava molto Alexei Navalny, raccoglieva fondi, elaborava strategie, lanciava appelli. Come ogni russo aveva una percezione diversa dalla nostra, anche del gulag, elemento costante della storia, fin dall’epoca degli zar.
“Amico mio, amico mio, mi mandino pure in Siberia, ad Arkangelsk” diceva un altro Demone di Dostojevskij, quel trombone di Stepan Trofimovic “Mi tolgano pure i diritti. Se c’è da perire, si perirà”.
Ma quella era una farsa, in fondo, perché Trofimovic chiosava subito dopo “Basta che non mi diano frustate”.
Navalny no, non ha scherzato. Il suo sorriso era beffardo, ma amaro. La prigione l’aveva messa in conto. E così le torture, il veleno. Ma fuori dal gulag, nelle interminabili notti artiche, non c’era nessuna Sonya ad aspettare il suo Raskolnikov. Solo gli aguzzini di Vladimir Putin.
Lontani gli affetti, lontana la famiglia: la moglie Yulia e, la figlia Darya, che ritiro’ per lui il premio Sakharov dalle mani di David Sassoli, nell’aula del Parlamento Europeo, il 15 dicembre 2021. Fu l’ultimo discorso, quello di David. Promise che le istituzioni non avrebbero lasciato solo un eroe che “non voleva rinunciare ai diritti e alla libertà”. Lo definì’ senza mezzi termini “prigioniero politico”. Un prigioniero per cui l’Occidente si è battuto sì, ma sempre con prudenza. Facendo finta di non aver sentito una sua inquietante domanda: “Che cosa succederebbe se nei vostri documenti invece di Ucraina scriveste Finlandia, o Paesi Baltici”? E così, giorno dopo giorno, la pressione su Mosca si è allentata, e il tiranno si è sentito libero di portare a termine il suo disegno criminale. Ha scelto il momento adatto: le diplomazie impotenti riunite a Monaco come nel 1938, l’America disorientata dalla campagna presidenziale, il Congresso per la prima volta contrario al sostegno all’Ucraina, i cortigiani e i prosseneti di Putin che rialzano la testa nelle cancellerie, nei Parlamenti, nei mercati internazionali, nelle università del mondo ancora libero.
E il lampo negli occhi di Navalny si è spento. Resta il suo testamento. “Se mi uccidono, vuol dire che siamo forti. Dobbiamo usare questa forza. Non arrenderci mai”.
Foto di apertura: Олег Козырев – Opera propria, Pubblico dominio, commons.wikimedia.org