Erano i primi mesi del 1977, avevo ventitré anni, frequentavo ed ero iscritto alle tre associazioni create dalla energia di Claudio Leone e di tanti altri di noi, ovvero l’ A.I.G.E. (Associazione Internazionale della Gioventù Europea), il CEGI, (Centro Giovanile per la Cooperazione Internazionale), il Comitato Italiano Giovani per l’Unicef  e facevo parte della redazione del TUTTI.

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In sede del Comitato Unicef, Giulia Lanfranchi, la mente e il cuore del Comitato, mi mostrò un invito da parte del comune di Augsburg, in Germania, per partecipare ad un Campo della Pace che si sarebbe tenuto in agosto, una decina di giorni. All’epoca frequentavo da anni corsi di lingua inglese/americano, tedesco, francese e spagnolo, per mia formazione culturale, quindi in primis oltre all’interesse e alla curiosità di partecipare ad un Campo della Pace – Frieden Camp, incontrare giovani di tutto il mondo, anche la conoscenza del tedesco spinse a questa decisione. Localizzato nella immediata periferia di Augsburg, in un bosco con una grandissima pianura, c’erano un centinaio di tende, da venti posti, che ci ospitavano.

Su tutto svettava un grande altoparlante su una torretta dove stavano ragazzi più grandi di noi, che controllavano; ogni tanto veniva anche la polizia, chissà cosa pensavano di noi gli abitanti-bene della città, dall’altoparlante arrivavano avvisi in varie lingue (come italiano c’ero solo io) e musica classica, rock, punk; ogni giorno, almeno una volta passavano Bob Dylan e la sua “Blowin’ in the Wind”, un giorno “La canzone del bambino nel vento” di Guccini, nella versione dei Nomadi, per me da sempre una stretta al cuore….dovevo immaginare….

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Ebbi così modo di conoscere, integrarmi e parlare con ragazze e ragazzi di tutto il mondo, che erano presenti come delegati di un’associazione culturale, pacifista, femminista, di aiuto e sostegno ai più deboli e molto altro e io in rappresentanza del Comitato Italiano Giovani per l’Unicef. Devo dire che erano presenti varie figure: hippy, studenti, cantanti, pensatori/filosofi, alcuni sembravano eremiti, creativi, punk e ragazze semisvestite, e, va detto, ogni tanto si sentiva un odore nell’aria, che non era certamente il sugo dell’arrosto…

Per ognuno di noi era previsto un momento di presentazione a tutti gli altri della associazione rappresentata, cosa che avvenne nel Campo, oltre ad un incontro promosso dal Sindaco della città, nella casa comunale, con rilievo sulla stampa e sui mezzi di informazione, dove anche io parlai dell’Unicef. Era previsto poi un corteo per la vie di Augsburg con maschere, bandiere, striscioni e colori inneggianti alla pace, che prevedeva anche il costruire da noi stessi, attraverso la creazione con modellazione di creta, di maschere allegoriche e non, da indossare durante la sfilata, anche con vari costumi, che si sarebbe svolta lungo le vie della città.

In quei giorni, parlando parlando, alcuni proposero di andare a visitare il campo di concentramento di Dachau, poco a nord-ovest della città di Monaco, dove andammo con il treno, circa un’ora di viaggio. Io sapevo la storia, ma non sapevo che lì vicino ci fosse questo posto. Eravamo una trentina e dire che fu uno shock, per tutti noi, è dire nulla. Già passare sotto quell’orrendo cancello ad arco con la frase divenuta drammaticamente famosa “Arbeit macht frei” ci privò di tutte le forze e cominciarono le lacrime.

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La guida ci raccontò che fu il primo campo di concentramento ideato già nel 1933, solo un anno dopo l’ascesa al potere di Hitler, per la cancellazione di tante figure invise al regime. Quindi, spaventoso a dirsi, fu il modello a cui ispirarsi da parte dei progettisti tedeschi. Questo ci fece capire tante cose, che forse nemmeno immaginavamo. Era sicuramente un disegno, che poi fu purtroppo replicato e implementato fino ad arrivare ad Auschwitz, nella Polonia occupata.

Camminare lungo le baracche, entrarci, vedere mucchi di valigie, di cappelli, di scarpe, di vestiti, e anche di capelli, testimonianza di vite, che non c’erano più, fu una sensazione che ancora oggi ho nella testa. Ci portarono dentro una camera a gas, sui muri lunghe strisce, quasi parallele, fino a terra…ci spiegarono…erano le righe fatte dalle unghie sul muro.


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Devo confessare una cosa, orrenda, ma non lo provai solo io, forse fu suggestione, ma ci portarono a visitare i forni crematori, sembrava ancora ci fosse odore e fumo…Da quella visita, penso proprio, uscimmo tutti cambiati, giovani di vent’anni per lo più, messi difronte alla morte scientifica, programmata, decisa dal potere per cancellare gli ebrei e non solo, anche tante figure della società tedesca e, negli anni a seguire, non solo tedesca, che non avevano diritto di esistere. Bastò guardare, in una bacheca, i colori del marchio o del triangolo, da indossare sulla divisa o qualche povero straccio, assegnati all’arrivo nei campi di concentramento a quelli che non venivano subito eliminati, ovvero gay, asociali, minorati mentali, zingari e rom, testimoni di Geova, emigrati, prigionieri politici e oppositori al regime.

Quella sera, cenavamo insieme, sparsi nel Campo della Pace, di norma un altoparlante mandava musica classica ma anche rock, nessuno parlava, silenzio totale. Credo che come fu per me, tornammo al termine a casa diversi, con un mondo di interrogativi, anche di felicità di essersi incontrati e aver testimoniato per le Associazioni che rappresentavamo, ma sicuramente diversi.

La prima cosa che feci al ritorno a Roma fu di andare, io trasteverino, nel quartiere ebraico, ho sempre odiato quell’altro termine, sull’altra sponda del Tevere e rimanere in silenzio davanti alla Sinagoga. Come si sa, dopo la razzia del 16 ottobre 1943, che svuotò le case di un po’ tutta Roma, tornarono poche decine di ebrei e per anni non parlarono di quanto successo e quello che avevano visto. Alcuni dissero, anni dopo, che avevano timore di non esser creduti, ma son convinto che più di tutto era il ricordo del terrore e di quello che avevano visto e vissuto.

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Permettetemi una digressione personale: mio padre, allievo carabiniere, fu catturato, nell’ottobre 1943, con altri ragazzi in caserma e portato prima in Germania, ma non so in che campo, per più di una anno, poi in Austria, a Klagenfurt, in un campo di lavoro, destinato ai giovani e comunque a quelli in forze, per manutenere, implementare e riparare le linee ferroviarie, certamente destinate al trasporto truppe, armamenti e vettovagliamenti. Ogni mattina venivano condotti sul luogo di “lavoro” con tanto di tessera di riconoscimento. Le linee venivano bombardate e mitragliate dalla aviazione americana regolarmente nel 1944, tutti scappavano, prigionieri, militari delle SS e civili, qualcuno spesso non gliela faceva. Tornò ferito e a piedi fino ad Ancona, dove la sua famiglia era sfollata, ma lo seppi solo quando io ormai ero grande, non ne aveva mai parlato. Un giorno trovai, lui ormai molto anziano, tra le sue carte un foglio scritto in tedesco che parlava di lui e di una ferita, gliene chiesi il perchè…e allora parlò……

Pertanto oggi come allora abbiamo un bene prezioso, da coltivare ogni giorno e farne il nostro primo pensiero, da mettere in pratica, da difendere e promuovere ovunque e sempre: la Pace.

Alessandro Coluccelli

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