Invito al viaggio. È inutile. La morte di Nino Benvenuti (1938 – 2025) consegna anche a chi da una vita ha perso ogni contatto con la boxe il capo di un filo e una gran voglia di tirarlo, sollecitando la memoria fra parole e foto. Il risultato può essere una cosa come questa, un viaggio nel tempo. È un gatto dispettoso, la memoria. Un gatto con il suo gomitolo.

Nino Benvenuti e Emile Griffith (sopra nel 1967, qui nel 2010)
Darwin e Gould. “Anch’io ho amato la boxe, da ragazzo. Seguii la radiocronaca, dal Madison Square Garden di New York, di Paolo Valenti, nel 1967, in piena notte, con la radio sotto il cuscino per non svegliare i miei genitori, della sfida mondiale dei pesi medi tra Nino Benvenuti ed Emile Griffith, con il memorabile trionfo del nostro pugile. Tutto è poi finito con Mike Tyson.” Così dieci anni fa Darwin Pastorin, recensendo per Huffington Post “Sulla boxe”, di Joyce Carol Oates (“J.C.O. mette tutti KO raccontando la boxe”). Non conosco Darwin Pastorin, ma queste parole potrebbero essere il risultato, impudicamente esposto, di una perquisizione della mia memoria. Potrei averle scritte io, una per una, virgola per virgola. Unica trascurabile variante: i miei genitori dormivano in un’altra parte della casa. Quelli da non svegliare, eventualmente, erano i fratelli. Solo Alessandro Baricco in “City”, con l’indispensabile supporto tecnico di Emanuela Audisio, avrebbe saputo anni dopo rievocare memoria e fascino di queste radiocronache, temprandole al fuoco della fervida trance pugilistica di Gould, il suo giovanissimo protagonista, e della sua furiosa autarchia sessuale. “Non si rida, compagni, non si rida” (avrebbe detto Gozzano) di questo intonare la sincopata, nitidissima, travolgente vocalità di quelle cronache radiofoniche alle furibonde polluzioni notturne e diurne di un ragazzino, ideale cuginetto gentile (nel senso di non ebreo) del più celebre Alex Portnoy , ma non ricordo nessun altro che abbia saputo ricreare con tanto amore e talento linguistico quest’epica radiofonica in letteratura.
Anni ’60.
Di quegli anni, più o meno fra il 1964 e il ’68, ricordo due quaderni, finiti chissà dove. Il primo era del tutto analogo a quello che Gianni Amelio ricorda di aver tenuto fra il ‘55 e il ‘59 (è un po’ più anziano di me, ma anche molto precoce: nel ‘55 aveva 10 anni, di contro ai miei 5). “In un quaderno sopravvissuto dal 1955 ho trovato l’elenco di tutti i film che ho visto da quando frequentavo la prima media e al cinema cominciavo ad andarci da solo. C’è scritto il titolo a stampatello, i nomi degli attori principali, se era a colori o in bianco e nero; e poi a fianco il voto, da uno a dieci. Un paio di anni dopo, invece del voto, ho cominciato a mettere i pallini, da uno a quattro.” (G. Amelio: “Il vizio del cinema”). Così il primo, dei miei due. L’altro era di tipo sportivo (dubito che Amelio ne avesse uno analogo): riportava i nomi di tutti i campioni europei e del mondo italiani di ogni disciplina. E per “ogni” intendo “ogni”. Per dire: avevo uno zio medico che, in un vorticoso mutare di hobbies più o meno seri, ebbe per qualche anno quello dei go-kart (era l’epoca del “Go-kart twist” di Gianni Morandi) e per qualche altro quello dei motoscafi. In quest’ultima veste riuscì ad essere campione europeo e addirittura mondiale di una delle infinite categorie – per cilindrata e non so che altro – di fuoribordo. C’era anche lui in quel quaderno, in cui ogni record battuto o campionato vinto da un italiano era registrato scrupolosamente. Fra gli sport figurava naturalmente il pugilato, con i suoi campioni: Loi, Mazzinghi, Benvenuti, Lopopolo, Arcari, ecc.

Luigi Zampa sul set di “Una questione d’onore”
In quegli anni il pugilato era ancora uno “sport” davvero popolare (spiegherò più tardi perché sport fra virgolette), non tanto perché popolare era il pubblico dei frequentatori delle palestre (è così anche adesso), ma perché enorme e diffuso era il numero degli appassionati. Un film di Luigi Zampa (“Una questione d’onore”), iniziava con una scheda della Sardegna così concepita: “La Sardegna: 24.084 Km quadrati, 967.000 abitanti, 4.350.000 pecore, 8.200 pugili pesi mosca, 36.250 carabinieri…”. (I pesi mosca, piuma, gallo e mini mosca sardi avrebbero dato molte soddisfazioni olimpiche, europee e mondiali all’Italia, da Burruni ad Atzori, da Udella a Puddu e oltre, divenendo quasi una categoria sociologico-sportiva.) In quegli anni, avresti potuto chiedere a dieci persone in un autobus chi era il campione del mondo dei pesi massimi e la metà (almeno), donne comprese, ti avrebbe risposto: Cassius Clay. I più politicizzati: Mohammed Alì. Altri tempi. I più giovani hanno conosciuto, al più, Mike Tyson ed è già un discorso un po’ diverso (parliamo sempre, comunque, di trentacinque/quarant’anni fa). C’è qualcuno oggi che conosce il nome del successore di Alì e Tyson? Ve lo dico io (fonte Wikipedia).

La boxe dilaniata.
Dilaniata per anni dalla rivalità fra le varie associazioni pugilistiche (WBA, WBC, IBF, WBO, IBO le principali), ognuna con i suoi regolamenti e i suoi campioni di categoria, la boxe ha oggi un campione dei massimi riconosciuto da quattro su cinque delle organizzazioni principali: si chiama Oleksandr Usyk ed è ucraino (solo la IBF mantiene un suo campione del mondo: l’inglese Daniel Dubois). Ma quel che più conta è che Usyk è campione “lineare”, titolo che designerebbe, salvo errori od omissioni, una sorta di campione dei campioni. Prima di Usyk la categoria era arrivata ad avere quattro o cinque campioni, ognuno con la sua associazione di riferimento alle spalle. Difficile prevedere quanto durerà l’attuale bonaccia, imposta dalla superiorità del pugile ucraino. Da molto tempo la divisione delle spoglie della boxe ne ha fatto uno di quegli sport di cui si parla, grazie ai dilettanti, solo durante le Olimpiadi. E oggi stringe il cuore pensare che Nino Benvenuti, con tutti i titoli conquistati, stimasse cara più di ogni altra la medaglia d’oro ottenuta a Roma nel ’60, oro a oro proprio con Cassius Clay, allora mediomassimo. Medaglia simbolo di una purezza e di anni la cui memoria prevaleva su quella degli stessi trionfi americani, molcendo sempre più a fatica i guai che lo avrebbero investito in tarda età.

Mickey Rourke, “The Wrestler”
Morte sul ring. Molte cose hanno contribuito al tracollo di popolarità della boxe, proprio nel momento in cui, con l’incontro di Kinshasa fra Alì e Foreman, raggiungeva il suo apice storico ed epico: la presa di parola di un intero continente attraverso il suo primo, travolgente mito autenticamente popolare (e vediamo tutti quanto sia sideralmente lontano, oggi, quel tempo). Cose note a tutti: la moltiplicazione di cui si è detto delle organizzazioni pugilistiche, che per impossessarsene l’avevano (e ancor più l’avrebbero) dilaniata; la proverbiale fama – non usurpata – di “sport” corrotto su molti fronti (la mafia, gli incontri venduti, il doping, le scommesse e via dicendo); infine – inaccettabili sempre, a volte vergognose – le morti sul ring. Tante, ma nessuna di queste avrebbe prodotto l’effetto, la commozione e il disgusto di quella di Duk Koo Kim, nel 1982, sotto i colpi di Ray “Boom Boom” Mancini (la madre del povero coreano e persino l’arbitro dell’incontro – unico caso che si sappia – si suicidarono nei mesi successivi), che in alcuni paesi del nord Europa portò alla radicale messa al bando per trenta e più anni della boxe e, nel resto del mondo, alla riduzione del numero delle riprese da 15 a 12.Ma il motivo vero, decisivo quanto ineluttabile, di questo tramonto era un altro, e aveva il carattere delle svolte storiche: finiva un’epoca, quella del lungo dopoguerra. Una fine non ancora certificata dal crollo del muro di Berlino, ma da tempo evidente nei mutamenti del costume. Il primo segnale fu il disinteresse sempre più vistoso delle televisioni. Da principio furono quelle pubbliche a lasciare il campo alle private; poi anche queste persero qualunque interesse. Da trent’anni, ormai, la boxe è bandita da ogni TV. Gli ultimi fuochi furono quelli di Tyson, brevissimi (e anche questo ebbe la sua incidenza: che interesse può avere un incontro che dura cinque/dieci minuti?) e ormai animaleschi. Tanto valeva allora rivolgersi al wrestling, una buffonata molto televisiva (almeno in America). Se, come diceva Gianni Brera, la boxe aveva dato dignità alla prostituzione maschile, il wrestling rimetteva le cose a posto. Sarebbe stata la parabola, artistica e personale, di Micky Rourke, tradotta nel film di Aronofsky (“The wrestler”), la sintesi più esemplare di questo breve passaggio nel segno del “pulp”. Finito anch’esso.
Hemingway a Parigi. Amori.
Joyce Carol Oates, la scrittrice di “La boxe”, uno dei due libri più importanti sul pugilato (l’altro è “La sfida”, di Norman Mailer, sull’incontro di Kinshasa), sostiene che la boxe non è uno sport. Lo sport, dice, ha in sé lo spirito del gioco: si gioca a infilare un pallone in una porta o in un canestro, a saltare più in alto o correre più forte, a primeggiare nel nuoto, ecc. Questo è sport. Nella boxe, io “gioco” a romperti la faccia (o a farmela rompere). In modo formalizzato, certo, con regole e limitazioni rigorose e un codice di lealtà da rispettare, ma la sostanza è questa. Non è un “gioco”, infatti si chiama “combattimento”: una cosa serissima. Non uno sport, quindi.
Sociologicamente il ring è stato e sempre sarà il teatro delle classi svantaggiate, di chi grazie alla boxe ha potuto (a volte neanche definitivamente) sottrarsi ad una vita che avrebbe avuto come orizzonte nemmeno tanto ipotetico la galera o la sedia elettrica (in America).

Ernest Hemingway nella sfida di Parigi
I ricchi l’hanno creata, dandole il mito (Hemingway e Morley Callaghan a Parigi, nel luglio del ‘44, che incrociano i guantoni con Scott Fitzgerald arbitro della sfida) e quello stupido appellativo di “noble art”. Poi, diceva Gianni Brera, quando hanno capito che c’era da faticare (e da rischiare a ghirba), l’hanno mollata subito ai poveri. I quali, in un mondo che conosceva bene l’odore della miseria, un mondo che li riconosceva e non si vergognava di loro, trovarono la platea ideale per la loro fame di riscatto, e l’opportunità di una gloria vera, reale, certificata da soldi, successo, belle donne e, per i più fortunati, la cooptazione nel mondo dello star system: l’amore tragico fra Edith Piaf e Marcel Cerdan; quello tempestoso fra Carlos Monzon e Ursula Andress; la parabola cinematografica di Tiberio Mitri con la sua miss Italia Fulvia Franco nell’Italia dei poveri ma belli, ecc. Cinema e pugilato si scoprivano permeabili l’uno dall’altro. Nino Benvenuti, il più grande, con Bruno Arcari, fra gli italiani di ogni tempo, era uno dei pochissimi di estrazione borghese. Origine da cui seppe trarre una vita molto diversa da quella della maggior parte dei suoi compagni di jab. Fu bello, quindici anni fa, il suo spendersi a favore dell’amico Emile Griffith, il rivale di quei celebri incontri, finito povero e malato, con cui era rimasto in contatto per cinquant’anni.
Rocco e Accattone.

Alain Delon e Renato Salvatori.
Anche in Italia come in America, dove “la boxe è importante come una guerra” (Ceronetti), letteratura e cinema hanno onorato a lungo il mito povero e duro del pugilato in tutte le sue interazioni sociali. Giovanni Testori ha descritto come nessuno, nel suo “Ponte della Ghisolfa”, il mondo milanese della boxe e Visconti ne trasse “Rocco e i suoi fratelli”, riportando in auge per le riprese il famoso Cinema Teatro Principe, tempio milanese della boxe d’anteguerra. Nella pentalogia dei “Segreti di Milano”, il pugilato affiancava l’altro sport dei poveri, il ciclismo (“Il Dio di Roserio”) e il mondo del varietà in alcuni dei racconti milanesi più belli del nostro novecento. Guido Ceronetti ha raccontato quella torinese (“Boxe a Torino”, in “La pazienza dell’arrostito”, poi in “Piccolo inferno torinese”) e i suoi rapporti con il fascismo, sempre molto stretti. “Dare pugni alla ludica, secondo regole rigide, è vero, può insegnare un certo dominio sul proprio fondo cannibalico, oltre che a difenderci dall’antropofagia urbana, ma anche il ludus è soggetto agli inganni degli Dei, alla frenesia della tracotanza.” (G.C.). I rapporti d’anteguerra col fascismo, che aveva fatto del pugilato una bandiera il cui pennone – come noto – era stato Primo Carnera, si sarebbero prolungati spesso nel dopoguerra in quelli con la destra post fascista: non so oggi, ma allora il mondo del pugilato al 90 % teneva la destra: di preferenza estrema (con derive a volte schiettamente criminali nelle seconde generazioni). Più tardi, in “La bellezza e l’inferno”, Roberto Saviano avrebbe raccontato le palestre di Marcianise e il pugilato in terra di camorra.
La boxe che avevamo conosciuto scompariva nel tourbillon di tutto ciò che infiliamo spesso a forza in un concetto, unificante e confuso, tradotto in un numero: il 68. Nel mondo nuovo s’avanzava uno strano soldato: una generazione che aveva un imperativo assoluto, vissuto come una missione storica ineludibile: troncare con la precedente. Come sempre, si dirà. Di più, parecchio di più. Gli sviluppi raramente saranno all’altezza delle attese e qualcuno (Giorgio Gaber) dirà: “La mia generazione ha perso”. Nelle nostre città le strade non sarebbero più state “il cortile degli italiani, ma il loro garage” (Goffredo Fofi). Chi volesse trovare in poesia il volto arcaico di questo passaggio, può trovarlo, come sempre, in Pasolini: il mondo di Accattone, con i suoi spettacolari corpo a corpo, epicizzati dalla musica di Bach, rappresentazione sacra dell’epopea popolare della lotta quale non sarebbe più stata. Altro che “noble art”! Un mondo scompariva, per un motivo tutto sommato non banale: stavamo meglio.

Accattone