Cosa significa vivere nell’era degli umani: l’Antropocene

L’impatto della specie umana sui sistemi naturali della Terra negli ultimi due secoli (e in particolare nell’ultimo) è senza alcun precedente nell’intera storia dell’umanità. L’intervento umano ha ormai alterato e sta continuamente alterando la dinamica degli ecosistemi in tutto il mondo, modificando molti aspetti dell’evoluzione della vita sulla Terra e persino gli equilibri dinamici che si sono verificati nel sistema climatico degli ultimi 11.000 anni (nell’attuale periodo geologico in cui viviamo, definito Olocene)[1].

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La sfida che l’umanità oggi ha di fronte è realmente una sfida epocale. La conoscenza scientifica ci dimostra chiaramente che la pressione umana sui sistemi naturali è completamente insostenibile nell’immediato futuro e, a causa dei grandi cambiamenti globali che abbiamo indotto nella natura, la nostra stessa civiltà è a rischio. Questi temi dovrebbero essere al primo posto delle agende politiche internazionali e nazionali.

Attualmente la popolazione umana sulla Terra è di oltre 7 miliardi e 700 milioni, più di 9 volte gli 800 milioni di persone che si stima vivessero nel 1750, data indicata come inizio della Rivoluzione Industriale. Questa cifra dovrebbe raggiungere, seguendo la variante media indicata dalle Nazioni Unite nel suo ultimo “World Population Prospects 2019” e in genere sempre rispettata da quando esistono questi Prospects [2], i 9.7 miliardi di abitanti nel 2050. La popolazione mondiale continua a crescere a un tasso di circa 83 milioni l’anno.

Il mondo vive oggi una gravissima situazione di disuguaglianza e ingiustizie sociali ormai intollerabili e si aggravano sempre di più le differenze esistenti tra chi è molto ricco e chi è molto povero [3]. Ogni giorno che passa inoltre non facciamo altro che indebolire sia la capacità che i sistemi naturali hanno di “supportarci” rigenerando le proprie risorse e offrendo i loro “servizi”, sia la loro capacità di metabolizzare gli “scarti” della nostra attività [4].

Appare ormai sempre più chiaro che è francamente impossibile pensare di proseguire nei nostri attuali modelli di sviluppo con scenari del tipo Business As Usual (BAU). Sono necessarie e urgenti svolte profonde nel nostro modo di intendere i nostri sistemi sociali ed economici e le relazioni con il mondo della natura dal quale proveniamo, dipendiamo e senza il quale non possiamo vivere. Purtroppo sembra che abbiamo dimenticato che se respiriamo, beviamo e mangiamo è grazie alla natura e ai servizi che ci offre quotidianamente e gratuitamente.

Avviarsi rapidamente su strade di sviluppo delle società umane che consentano una sostenibilità del nostro intervento rispetto ai chiari limiti biofisici del pianeta e al rispetto della dignità della vita di ogni essere umano, ormai non è un’opzione ma un obiettivo improrogabile.

Oggi la conoscenza scientifica ci documenta che dal periodo geologico dell’Olocene (iniziato circa 11.700 anni fa) siamo passati ad un’epoca geologica (che possiamo considerare un vero battito di ciglia nella storia dei 4.6 miliardi di anni del nostro pianeta) che gli studiosi ritengono debba definirsi appunto Antropocene [5], con un mondo dominato da una sola specie, la nostra, e con gli ambienti  delle terre emerse trasformati per almeno il 75% della loro superficie e quelli marini profondamente impattati per almeno il 66%[6].

Oggi disponiamo di un’incredibile quantità di informazioni sullo stato di salute del nostro pianeta. Le significative trasformazioni che hanno subito a causa dell’intervento umano tutti gli ecosistemi della Terra sono ormai ben documentati dalle ricerche dei numerosi programmi scientifici internazionali dedicati al Global Environmental Change (GEC) che nel 2013, hanno visto la nascita del nuovo grande programma di ricerca internazionale “Future Earth: Research for Global Sustainability” voluto e patrocinato dalla più grande organizzazione scientifica del mondo, l’International Council for Science (ICSU) insieme all’International Social Sciences Council (ISSC), la maggiore organizzazione internazionale di scienze sociali che proprio recentemente, nel 2018, si sono unite in un unico International Science Council (ISC), a dimostrazione dell’enorme importanza delle connessioni disciplinari che è fondamentale considerare nell’affrontare le sfide del nostro futuro [7].

Abbiamo purtroppo perso decenni importanti per invertire la rotta dei nostri modelli di crescita continua, materiale e quantitativa, che si sono ormai diffusi in tutte le culture e le società del pianeta. Resta molto significativo nel 1972, come uno dei primi rilevanti allarmi argomentati sulla situazione planetaria, il lucido rapporto dell’MIT al Club di Roma, sui limiti alla crescita[8].

La Terra non è in pericolo; in pericolo è invece l’umanità e la civiltà che essa ha creato poiché questa è stata possibile solo

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grazie ai beni ed ai servizi che la natura ci ha fornito e alla straordinaria stabilità dinamica climatica e ambientale degli ultimi secoli. Insieme a noi tutti oggi è in pericolo la meravigliosa biosfera e l’evoluzione della vita che sta condividendo con noi questa fase della storia del nostro pianeta. Oggi noi stessi siamo i principali protagonisti della distruzione della biosfera senza la quale non possiamo vivere.

La nostra Terra ha dato sin qui prova di aver contribuito ad attenuare l’impatto umano rispetto a vari fenomeni, ad esempio mitigando gli effetti delle emissioni di gas serra, dei processi di deforestazione e di degrado dei suoli, e riuscendo ad assorbire sostanze prodotte dall’industria umana, facendo adattare gli ecosistemi e modificando le catene alimentari, ma ora inizia a dimostrare palesi segni di sofferenza e maggiore carenza di resilienza[9] .

I Planetary Boundaries: il nostro Safe and Operating Space (S.O.S.)

Sin qui abbiamo accumulato numerose evidenze scientifiche che dimostrano come la pressione che esercitiamo sulla Terra potrebbe aver raggiunto soglie di saturazione ed abbiamo sempre più chiaro il fatto che non possiamo oltrepassare i confini planetari (Planetary Boundaries) indicati dalla comunità scientifica[10].

Oltrepassare questi confini comporta il passaggio di punti critici, cioè quegli effetti soglia che ancora abbiamo difficoltà a indicare con esattezza, perché, nonostante gli straordinari progressi sin qui fatti, la comprensione scientifica del sistema Terra è ancora incompleta.

È quindi molto importante che diversi e significativi guardrails siano stati tracciati dalla nostra conoscenza scientifica e sarebbe pura follia non rispettarli. Rispettarli significa evitare l’approssimarsi ai punti critici e significa applicare percorsi di sostenibilità al nostro sviluppo.

Disponiamo ora di dati che documentano come il nostro impatto sui sistemi naturali è ormai vicino a raggiungere quei punti critici (Tipping Points), oltrepassati i quali, gli effetti a cascata che ne derivano, possono essere veramente ingovernabili e devastanti per l’umanità. Per questo motivo sono stati indicati dei “confini planetari” (Planetary Boundaries) con la raccomandazione che l’intervento umano non li superi, pena effetti veramente negativi e drammatici per tutte le nostre società.

Si tratta di nove grandi problemi planetari tra di loro strettamente connessi e interdipendenti: il cambiamento climatico, l’acidificazione degli oceani, la riduzione della fascia di ozono nella stratosfera, la modificazione del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo, l’utilizzo globale di acqua, i cambiamenti nell’utilizzo del suolo, la perdita di biodiversità, la diffusione di aerosol atmosferici, l’inquinamento dovuto ai nuovi prodotti antropogenici.

Per quattro di questi problemi e cioè il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, la modificazione del ciclo dell’azoto e del fosforo e le modificazioni dell’uso dei suoli ci troviamo già oltre il confine indicato dagli studiosi.

Complessivamente, i nove confini planetari individuati dagli studiosi, possono essere concepiti come parte integrante di un cerchio, definendo così quell’area come «uno spazio operativo sicuro» per l’umanità (Safe and Operating Space, S.O.S.). Il concetto dei confini planetari consente di evidenziare in maniera efficace complesse questioni scientifiche a un vasto pubblico mettendo in discussione le concezioni tradizionali delle nostre impostazioni economiche. Mentre l’economia convenzionale tratta il degrado ambientale come una “esternalità” che ricade in gran parte fuori dell’economia monetarizzata, gli Earth System scientists hanno letteralmente sovvertito tale approccio proponendo un insieme di limiti quantificati dell’uso di risorse entro cui l’economia globale dovrebbe operare, se si vuole evitare di toccare i punti di non ritorno del sistema Terra che eserciterebbero effetti devastanti sull’intera umanità. Tali confini non sono descritti in termini monetari ma con parametri naturali, fondamentali a garantire la resilienza del pianeta affinché mantenga uno stato simile a quello che si è avuto durante il periodo abbastanza stabile dell’Olocene.

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È stata inoltre creata per questo l’Earth Commission [11]costituita da un autorevole team di scienziati del sistema Terra, che si è data il compito di individuare le basi scientifiche per indicare una serie di target che contribuiscono a mantenere le funzioni dei sistemi di supporto della vita sulla Terra, per il clima, i suoli e i territori, gli oceani, le acque interne e la biodiversità. Questo lavoro declina e rafforza quello dell’attuale Science Based Targets Network [12]dedicato soprattutto al climate change, che rientra nel gruppo di iniziative condotte dalla Global Commons Alliance,[13] e da Future Earth.

Il dibattito scientifico e le applicazioni pratiche del concetto dei confini planetari si è andato sempre più diffondendo e ampliando nei dibattiti di politica internazionale incrociandosi con le riflessioni di carattere sociale ed è stato adottato da numerosi organismi delle Nazioni Unite, dal World Business Council for Sustainable Development, dal World Economic Forum, ecc. 

Doughnut Economics, il nostro Safe and Just Space for Humanity

L’economista Kate Raworth ha ampliato queste ricerche sui confini planetari con le riflessioni di ambito socio-economico, cercando di individuare uno spazio equo e sicuro per l’umanità [14].

Infatti il benessere umano dipende oltre che dal mantenimento dell’uso complessivo delle risorse in un buono stato naturale complessivo che non scenda sotto certe soglie, anche e in misura uguale, dalle necessità dei singoli individui di soddisfare alcune esigenze fondamentali per condurre una vita dignitosa e con le giuste opportunità. Le norme internazionali sui diritti umani hanno sempre sostenuto per ogni individuo il diritto a risorse fondamentali quali cibo, acqua, assistenza sanitaria di base, istruzione, libertà di espressione, partecipazione politica e sicurezza personale. Quindi come esiste un confine esterno all’uso delle risorse, un “tetto” oltre il quale il degrado ambientale diventa inaccettabile, così esiste un confine interno al prelievo di risorse, un «livello sociale di base» (un “pavimento”) sotto il quale la deprivazione umana diventa inaccettabile.

La Raworth ha individuato 11 priorità sociali quali la privazione del cibo, la disponibilità di acqua, l’assistenza sanitaria, il reddito, l’istruzione, la disponibilità di energia, i posti di lavoro, il diritto di espressione, la parità di genere, l’equità sociale e la resilienza agli shock, indicandole come una base sociale esemplificativa e incrociandole con i confini planetari. Si viene così a formare, tra questi diritti di base sociali, una sorta di “pavimento sociale” e i “tetti ambientali” dei confini planetari, una fascia a forma di ciambella che può essere definita sicura per l’ambiente e socialmente giusta per l’umanità.

Questa analisi della Raworth viene comunemente definita appunto l’economia della ciambella (Doughnut Economics). Una combinazione di confini sociali e planetari di questo tipo crea una nuova prospettiva di sviluppo sostenibile. Da molto tempo i fautori dei diritti umani hanno sottolineato l’imperativo di assicurare a ogni individuo il minimo indispensabile per vivere, mentre gli economisti ecologici si sono concentrati sul bisogno di collocare l’economia globale entro i limiti ambientali. Questo spazio, indicato dall’economia della ciambella, è una combinazione dei due, creando una zona che rispetti sia i diritti umani di base sia la sostenibilità ambientale, riconoscendo anche l’esistenza di complesse interazioni dinamiche tra i molteplici confini e al loro interno [15]. 

L’oggetto della sostenibilità: l’analisi e la gestione dei Social Ecological Systems (S.E.S)

Ancora oggi, nell’accezione comune, il termine sostenibilità non è affatto chiaro e si presta a numerose confusioni e tutto questo proprio mentre assistiamo a importantissimi avanzamenti nella conoscenza scientifica che dovrebbero invece essere ampiamente utilizzati per favorire questo difficile compito.

Negli ultimi anni è infatti nata una disciplina molto innovativa definita Sustainability Science, la scienza della sostenibilità. Essa appare come una vera e propria integrazione e confluenza di numerose discipline, capace di integrare gli avanzamenti continui delle conoscenze dovute alle molteplici indagini nei vari campi della fisica, chimica, biologia, geologia, ecologia e scienze sociali con le nuove discipline di frontiera, quali l’economia ecologica, la biologia della conservazione, l’ecologia industriale, ecc. [16]

E solo rafforzando la nostra conoscenza di base, consentendole di essere interdisciplinare, flessibile, innovativa, aperta alla contaminazione di tanti altri ambiti del sapere, che saremo in grado di avviare percorsi significativi mirati a raggiungere una sostenibilità del nostro benessere e del nostro sviluppo su questo meraviglioso pianeta Terra. E soprattutto se saremo capaci di connettere e non di disgiungere.

La sostenibilità è però un concetto complesso e articolato che viene purtroppo ancora continuamente banalizzato. La

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complessità che la caratterizza e le persistenti difficoltà di attuare concretamente azioni, comportamenti e politiche che siano in grado di metterla in pratica, modificando i ben strutturati modelli mentali, culturali e pratici oggi dominanti, provocano una forte confusione, che non favorisce, purtroppo, una sua corretta definizione.

La sostenibilità è costituita da tanti elementi che devono essere sempre tenuti in connessione tra loro e già questo costituisce una notevole sfida alla nostra mentalità abituata a pensare seguendo logiche lineari di causa ed effetto ed ai nostri conseguenti comportamenti.

Volendo semplificare il concetto in una semplice definizione, possiamo affermare che sostenibilità vuol dire imparare e vivere, in una prosperità equa e condivisa con tutti gli altri esseri umani, entro i limiti fisici e biologici dell’unico pianeta che siamo in grado di abitare: la Terra [17].

Oggetto fondamentale delle ricerche sulla sostenibilità sono i Social-Ecological Systems (SES), cioè la capacità di comprendere le interazioni e i legami esistenti tra gli esseri umani e i sistemi naturali e comprendere come sia possibile gestirli al meglio. 

I concetti centrali della sostenibilità: la resilienza e la vulnerabilità, cosa significa muoversi entro lo spazio operativo sicuro e equo per l’umanità

La grande sfida della sostenibilità risiede nel rispettare le capacità rigenerative e ricettive dei sistemi naturali che ci sostengono. Come abbiamo visto le conoscenze sin qui acquisite negli articolati campi delle scienze del Sistema Terra ci dicono chiaramente che non è possibile perseguire la sostenibilità dello sviluppo umano se non siamo capaci di imparare a vivere negli ormai evidenti limiti biofisici dei sistemi che ci sostengono.

Ciò significa nel concreto limitare la crescita della popolazione, limitare i livelli di flusso dell’energia e delle materie prime e quindi i nostri livelli di consumo e perciò la necessità di modificare profondamente i nostri modelli di produzione e consumo della natura che ci circonda [18] .

Il concetto di resilienza è un concetto che sta diventando sempre più diffuso ed utilizzato in diverse discipline. La resilienza viene considerata come la capacità che un sistema (quindi anche un sistema naturale, un sistema sociale, un essere umano ecc.)  ha di rispondere positivamente alle perturbazioni che lo possono disturbare consentendo poi al sistema stesso di tornare allo stato precedente all’azione della perturbazione [19].

La resilienza è misurata dal grado di disturbo che può essere assorbito prima che il sistema cambi la sua struttura, mutando variabili e processi che ne controllano il comportamento. La resilienza di un ecosistema costituisce quindi la capacità di tollerare un disturbo senza collassare in uno stato qualitativo differente. Il sistema che ha minore resilienza inevitabilmente accresce la propria vulnerabilità. Perciò la gestione dei sistemi socio-ecologici deve essere indirizzata a mantenere alto il livello di resilienza e basso quello di vulnerabilità.

L’intervento umano purtroppo accresce la vulnerabilità dei Sistemi Socio-Ecologici. La vulnerabilità rappresenta la propensione dei SES a soffrire il danno dovuto alle esposizioni agli stress esterni e agli shock che indeboliscono i sistemi stessi e li rendono sempre più fragili.

I “semi” per concretizzare un buon Antropocene.

Sino ad ora le nostre società hanno perseguito modelli di sviluppo socio-economico che si sono basati sulla crescita continua dell’utilizzo degli stock e dei flussi di materia ed energia da trasferire dai sistemi naturali a quelli sociali. Al centro dei processi economici non è stato collocato il capitale fondamentale che ci consente di perseguire il benessere e lo sviluppo delle nostre stesse società e cioè il capitale naturale, costituito dalla straordinaria ricchezza della natura e della vita sul nostro pianeta. Non avendo sin qui fornito un valore ai sistemi idrici, alla rigenerazione del suolo, alla composizione chimica dell’atmosfera, alla ricchezza della diversità biologica, alla fotosintesi, solo per fare qualche esempio, le nostre società presentano ormai livelli di deficit nei confronti dei sistemi naturali molto superiori ai livelli di deficit che l’attuale crisi economico e finanziaria che stiamo attraversando dal 2008 (con il notevole aggravio degli effetti della pandemia dal SARS-CoV-2), registra nelle contabilità economiche in tutti i paesi del mondo. I deficit economici derivano da un sistema di regole, di norme e meccanismi di funzionamento (o, viceversa, dalla mancanza di regole e norme) costruite dalla cultura umana e, come tali, potenzialmente modificabili nel caso di nuove impostazioni culturali e politiche, mentre i deficit ecologici riguardano una dilapidazione fisica e materiale che sorpassa le capacità biofisiche rigenerative e ricettive dei sistemi naturali ai quali diventa sempre più difficile, se non impossibile, porre rimedio.

L’economia ha purtroppo ragionato molto sulla natura del valore ma non sul valore della natura. Il capitale naturale non può essere di fatto “invisibile” all’economia come avviene attualmente, ma è centrale e fondamentale per la sopravvivenza dell’intera civiltà umana; dobbiamo quindi “mettere in conto” la natura, riconoscerle un evidente valore fisico e anche monetario, con gli ovvi limiti che derivano da questo tipo di esercizio in quanto il valore della natura è incommensurabile. La contabilità economica deve essere affiancata da una contabilità ecologica. Il valore del capitale naturale deve influenzare i processi di decision making. È praticamente impossibile prospettare un futuro vivibile per le nostre società se non saremo capaci di cambiare registro agli attuali modelli economici e trovare finalmente il modo di dare un valore alla natura e di riuscire a vivere concretamente in armonia con essa.

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Dall’inizio degli anni Novanta diversi studiosi hanno presentato, come applicazione concreta di politiche della sostenibilità, l’ipotesi dell’Environmental Space (ES) cioè dello “spazio ambientale” cioè il quantitativo di energia, di risorse non rinnovabili, di territorio, acqua, legname e di capacità di assorbire inquinamento che ciascun individuo può utilizzare senza determinare danni ambientali, senza mettere a rischio i diritti delle generazioni future e senza ledere il diritto di tutti di accedere alle risorse e a una buona qualità della vita [20].

Ad esempio, per quanto riguarda le emissioni di anidride carbonica, sappiamo che per mantenerci in ambiti che vengono ritenuti abbastanza sicuri rispetto al peggioramento dei cambiamenti climatici già in atto, non dovremmo superare 1 o massimo 2 tonnellate pro capite annue, mentre oggi soprattutto nei paesi ricchi giungiamo a livelli superiori alle 10 tonnellate.  Il concetto di spazio ambientale si lega perfettamente a quello dei Planetary Boundaries e costituisce un elemento integrante della valutazione del nostro Safe and Just Operating Space for Humanity.

Inoltre tutti i paesi del mondo dovrebbero dotarsi di un Comitato nazionale per il capitale naturale, come ad esempio ha fatto la Gran Bretagna e fortunatamente, grazie ad una significativa azione del WWF, anche l’Italia (con la legge 221 del 2015), per mettere a disposizione delle politiche, analisi, misure e indicatori con l’obiettivo di illustrare come il valore della biodiversità e dei servizi degli ecosistemi siano parte costitutiva della ricchezza di una nazione, un loro asset strategico, fondamentale per il benessere e lo sviluppo di tutti gli abitanti.

Ormai è stato dimostrato quanto l’indicatore del PIL (Prodotto Interno Lordo) non costituisca affatto il sinonimo reale della ricchezza e del benessere di un paese o di una comunità ed esiste un’amplissima letteratura nonché tanti esempi alternativi concreti già avviati in diversi paesi del mondo, destinati ad allargare il set di indicatori sui quali si dovrebbe prendere in considerazione il benessere di una nazione, di una regione, di una comunità, di una città.

Alcuni strumenti per lo sviluppo sostenibile

Quanto sopra brevemente riassunto può diventare prassi operativa grazie ad alcuni strumenti già a disposizione.

In particolare nel 2015 è stata approvata l’Agenda 2030 con i suoi 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile approvati da tutti i paesi del mondo alle Nazioni Unite [21], che costituisce, insieme ai piani di azione, alle strategie e agli accordi scaturiti dalle grandi convenzioni internazionali sulle problematiche del nostro mondo, un punto di riferimento ineludibile per le azioni concrete che devono essere attivate. Sempre nel 2015 è stato approvato l’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico [22] e da un punto di vista più etico ma ben ancorato alla scienza, è stata promulgata l’enciclica di papa Francesco “Laudato sì” [23]sulla cura della casa comune, un documento di grande importanza per tutti, non solo per i cattolici.

Purtroppo sino ad ora sulla declinazione operativa di tutto questo non sono stati fatti passi in avanti. I ritardi, l’inazione, nonché il gravissimo negazionismo montato contro le migliori conoscenze scientifiche sullo stato della situazione planetaria, provocano ormai danni incalcolabili e contribuiscono a frenare azioni assolutamente non più rimandabili. Molti studiosi ritengono che questi comportamenti possono essere ormai assimilati a veri e propri crimini contro la natura e quindi, conseguentemente, contro l’umanità [24].

L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile che individua 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals – SDGs) articolati in 193 target ed oltre 240 indicatori. Questi Obiettivi sono universali e non riguardano solo i paesi in via di sviluppo, anzi come viene spesso ripetuto quando si parla dell’Agenda 2030 si dice che tutti i paesi vengono considerati in via di “sviluppo sostenibile”. Gli SDGs devono essere applicati a tutti le nazioni del mondo con le misure e gli strumenti che tengano conto delle diverse condizioni a livello nazionale. Di fatto l’applicazione degli Obiettivi costituisce un’agenda politica integrata nelle componenti ambientali, sociali ed economiche per i prossimi ormai solo 10 anni per tutti i paesi, mirata a risolvere le complesse sfide che l’umanità si trova oggi ad affrontare.

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L’Agenda 2030 conferma il giudizio sull’insostenibilità del perseguimento dell’attuale sentiero di sviluppo, non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale e per questo tutti i paesi sono chiamati a contribuire allo sforzo di portare lo sviluppo globale su un sentiero sostenibile, senza più distinzione tra paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo, anche se evidentemente le problematiche possono essere diverse a seconda del livello di sviluppo conseguito, seguendo però sempre il principio che nessuno deve essere lasciato indietro (No one will be left behind).

Pertanto ogni paese dovrà impegnarsi a definire una propria strategia di sviluppo sostenibile che consenta di raggiungere gli obiettivi definiti dalla strategia e le Nazioni Unite sono tenute a svolgere un continuo monitoraggio dello stato di attuazione di tali strategie. L’attuazione dell’Agenda richiede un forte coinvolgimento di tutte le componenti della società, dalle imprese al settore pubblico, dalla società civile alle NGOs, dalle università e i centri di ricerca agli operatori dell’informazione e della cultura.

A fronte del fallimento della reale integrazione delle politiche ambientali, economiche e sociali sin qui verificatosi, il tema centrale che è stato all’ordine del giorno della preparazione degli SDGs è stato proprio quello di raggiungere un’agenda politica che non disgiungesse le tematiche dello sviluppo sociale ed economico da quelle ambientali, a dimostrazione di quanto ormai sia acquisita la considerazione che la salute e la vitalità dei sistemi naturali costituisce la base ineludibile per il benessere e lo sviluppo sociale umano.

Il dibattito che è scaturito dalla definizione degli obiettivi di sviluppo sostenibile è stato certamente interessante ed anche molto utile per quanto riguarda gli impegni che la comunità internazionale dovrà affrontare per rendere operativo, al più presto, il concetto di sostenibilità dei nostri modelli di sviluppo sociale ed economico. Inoltre è servito molto a discutere e ampliare la necessità di avere indicatori differenti da quelli canonici di stampo economico che sono ritenuti centrali per definire il livello di ricchezza e benessere di un paese come il PIL.

E’ evidente che, durante la fase negoziale e dopo l’approvazione dell’Agenda 2030 sono state fatte anche critiche motivate a fronte delle significative richieste espresse da più parti (società civile, NGOs, comunità scientifica, ecc.) per giungere a un pacchetto di SDGs, ambiziosi, sfidanti, concreti, monitorabili, dimostrabili, realmente integrati ecc. che dessero il segno tangibile e concreto di una vera inversione di rotta della politica e dell’economia a fronte della drammatica situazione ambientale e sociale in cui le nostre società si trovano da tempo e che richiede risposte urgenti e innovative.

Ma va anche detto che l’Agenda 2030, pur con i suoi limiti, oggi è una realtà alla quale tutti i paesi del mondo dovranno dare risposte concrete: si è così aperto un fronte di forte impegno da parte delle NGOs e della società civile per spingere su questa strada la politica, l’economia, le istituzioni, il mondo delle imprese ed ottenere risultati tangibili. La messa a punto dei nuovi Sustainable Development Goals (SDGs) che nell’agenda internazionale sullo sviluppo hanno preso il testimone dei Millennium Development Goals (MDGs), ha avuto luogo in un momento particolarmente significativo per l’umanità.

I lineamenti di una nuova politica economica sono stati in questi decenni ben individuati da tanti studiosi che da tempo si occupano di nuove impostazioni economiche, come ad esempio, l’economia ecologica e scaturiscono da avanzamenti conoscitivi e applicativi che possono realmente permetterci di imboccare una nuova strada, alternativa all’attuale.

Il tema fondamentale per il futuro della sostenibilità del nostro mondo è riconoscere finalmente non solo per il mondo economico istituzionale e privato, la centralità del capitale naturale per il nostro sviluppo e il nostro benessere, ma anche riconoscere, a livello di governance, la centralità del bene comune globale che la biosfera e quindi i sistemi naturali, rappresentano per l’intera umanità e il suo futuro (acqua, atmosfera, aria, terra, biodiversità) [25].

La concretizzazione di prassi operative per applicare la sostenibilità nei nostri sistemi economici e sociali, sta diffondendosi in numerosi paesi del mondo, ovviamente anche nel nostro, e si nutre dei fondamentali concetti scientifici che iniziative sulla Global Sustainability, come Future Earth, hanno messo a disposizione. A tal proposito vale la pena citare i Seeds for Good Anthropocenes [26] ma ormai in tutto il mondo si registrano molte iniziative di questo tipo.

L’importante taglio sul ruolo di politiche favorevoli a un Green Deal, assunto dalla nuova Commissione Europea, può senz’altro costituire un esempio importante per tracciare un futuro sostenibile, da attuare intanto per il continente europeo.

Sarebbe molto utile giungere ad una sorta di Safe Operating Space Treaty, un trattato internazionale sullo spazio operativo sicuro e giusto per l’umanità, proposto da esperti di diritto internazionale insieme a scienziati del sistema Terra, che di fatto applica in concreto la conoscenza scientifica che ci proviene dai percorsi che hanno prodotto, tra gli altri, i concetti di Environmental Space e Planetary Boundaries. Il lavoro degli scienziati del sistema Terra ha stimolato numerosi studiosi di altre discipline anche umanistiche.

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Oggi più che mai nella dimensione dell’Antropocene, le convincenti e documentate motivazioni scientifiche, sociali e umanistiche riguardanti la necessità di salvaguardare l’intero pianeta come “casa comune dell’umanità”, hanno condotto ad esplorazioni e proposte innovative, quali, ad esempio, quella di un SOS Treaty, un trattato internazionale per lo Spazio Sicuro e Operativo[27], le cui riflessioni e proposte sono confluite nel gruppo di lavoro ONU che si occupa del Global Pact for the Environment, approvato con risoluzione dell’Assemblea generale Nazioni Unite nel 2018[28].

Il tempo non gioca a nostro favore. Siamo tutti chiamati a raccogliere la sfida e a dare il nostro contributo.

 

[1] Vedasi tutti i rapporti dell’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC) www.ipcc.ch in particolare gli ultimi rapporti su oceani e criosfera, su climate change e suolo e sulla situazione relativa al limite di 1.5° C sopra la temperatura media della superficie terrestre in epoca pre industriale.

[2] Vedasi World Population Prospects 2019 dal sito https://population.un.org/wpp/

[3] Vedasi ad esempio il rapporto “Time to care” 2020 di Oxfam dal sito https://www.oxfam.org/en/research/time-care

[4] Vedasi Wackernagel M. e B. Beyers, 2020, Impronta ecologica. Usare la biocapacità del pianeta senza distruggerla, (ed. it. a cura di G. Bologna)

[5] Crutzen P., 2005, Benvenuti nell’Antropocene !, Mondadori; Lewis L.L e M.A. Maslin, 2019, Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene, Einaudi; Ellis E. 2020, Antropocene. Esiste un futuro per la Terra dell’uomo, Giunti (ed. it. a cura di G. Bologna); Waters C. e altri (a cura di), 2014, A stratigraphical basis for the Anthropocene, Geological Society of London, Special Publication; Zalasiewicz J. e altri (a cura di), 2019, The Anthropocene as a Geological Time Unit, Cambridge University Press.

[6] IPBES, Intergovernamental Science Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services, 2019, Global Assessment Report on Biodiversity and Ecosystem Services, vedasi https://ipbes.net/global-assessment

[7] Vedasi il sito https://council.science/  e vedasi www.futureearth.org

[8] Meadows D.H., Meadows D.L., Randers J. e W.W. Behrens III (1972), I limiti dello sviluppo, Edizioni Mondadori, nuova ristampa 2018, I limiti alla crescita, Lu:Ce Edizioni (con brevi saggi di A. Steffes, U. Bardi e G.Bologna) vedasi www.clubofrome.org

[9] Vedasi Rockstrom J. e M. Klum, 2015, Grande mondo piccolo pianeta, Edizioni Ambiente (ed. it. a cura di G.Bologna)

[10] Rockstrom J. e A. Wjikman, 2014, Natura in bancarotta. Perché rispettare i confini del pianeta, Edizioni Ambiente (ed. it. a cura di G.Bologna); Rockstrom J. et al. (2009), A safe and operating space for humanity, in “Nature”, 461; 472-475; Steffen W. et al. (2015), Planetary boundaries: Guiding human development on a changing planet, in “Science”,10.1126/science.1259855.

[11] Vedasi https://earthcommission.org/

[12] Vedasi https://sciencebasedtargets.org/

[13] Vedasi https://globalcommonsalliance.org/

[14] Raworth K, (2017), L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo, Edizioni Ambiente (ed.it. a cura di G.Bologna)

[15] Vedasi https://doughnuteconomics.org/

[16] Tra i vari testi vedasi, ad esempio, de Vries B.J.M., 2013, Sustainability Science, Cambridge University Press e Konig A. e J. Ravetz, 2017, Sustainability Science, Key Issues, Routledge.

[17] Vedasi i testi di divulgazione di Bologna G., 2005, Manuale della sostenibilità. Idee, concetti, nuove disciplina capaci di futuro, Edizioni Ambiente; Bologna G., 2013, Sostenibilità in pillole. Per imparare a vivere su un solo pianeta, Edizioni Ambiente.

[18] Berners-Lee Mike, 2020, No Planet B, edizioni Il Saggiatore.

[19] Vedasi il sito dello Stockholm Resilience Centre, uno dei maggiori centri internazionali di ricerca sulla resilienza www.stockholmresilience.org e quello della Resilience Alliance www.resalliance.org

[20] Un utile testo divulgativo sul concetto di Environmental Space è quello di Carley M. e Spapens P., 1999, Condividere il mondo. Equità e sviluppo sostenibile nel ventesimo secolo, Edizioni Ambiente.

[21] Vedasi https://www.un.org/sustainabledevelopment/

[22] Vedasi https://unfccc.int/process-and-meetings/the-paris-agreement/what-is-the-paris-agreement

[23] Vedasi http://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html

[24] Un testo fondamentale in merito è quello di Oreskes N. e E.M. Conway, 2019, Mercanti di dubbi, Edizioni Ambiente.

[25] Vedasi il già citato rapporto IPBES, Intergovernamental Science Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services www.ipbes.net , nonché i rapporti del TEEB, The Economics of Ecosystems and Biodiversity www.teebweb.org e i rapporti biennali  “Living Planet Report” del WWF l’ultimo dei quali è quello del 2020 “Bending the curve of biodiversity loss” https://livingplanet.panda.org/en-us/  e la recente review sulla biodiversità voluta dal governo inglese e guidata dal famoso economista Partha Dasgupta della Cambridge University https://www.gov.uk/government/collections/the-economics-of-biodiversity-the-dasgupta-review

[26] Vedasi https://goodanthropocenes.net/

[27] Vedasi https://www.commonhomeofhumanity.org/

[28] Vedasi https://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/72/277  e anche https://globalpact.informea.org/

Foto di apertura di  Rilsonav da Pixabay