Fra i film di Woody Allen ce n’è uno doppio. Si chiama “Settembre” (1987) ed è il sedicesimo della lista. La copia definitiva, già pronta per l’uscita, non era piaciuta a Woody, il quale pensò bene di ripartire da zero: stesse scene e nuovo cast. Oggi quella prima copia, in cui Maureen O’Sullivan, madre di Mia Farrow, interpretava il ruolo della madre di sua figlia (problemi di salute le avrebbero impedito di essere della partita nel secondo giro di riprese) non esiste più. Ma la lunga fase di lavorazione non ha evitato a “September” quella patina da esercizio di stile, un po’ pallido e inerte, alla base del suo insuccesso. In America “non lo ha visto nessuno”, parola dell’autore; in Europa, pochi. Quarto film di Allen senza Woody – dopo l’arcigno “Interiors” e i bellissimi “La rosa purpurea del Cairo” e “Radio days” (nel quale ultimo compariva in voce come narratore) – e secondo a rifarsi a modelli di drammaturgia “alta” (il Bergman di “Sinfonia d’autunno” e il Čechov di “Zio Vanja”, di cui “September” è una sorta di libera versione per protagonista femminile), “Settembre” non ha oggi particolari motivi di interesse, al di là di quelli enunciati, se non il formidabile segno tecnico lasciato da due collaboratori destinati a diventare fondamentali nel cinema targato Woody Allen: il direttore della fotografia Carlo Di Palma e lo scenografo Santo Loquasto. Molto più di un’eccezionale riuscita tecnica, quel segno; buon motivo per parlare del film allargando la prospettiva.

LUCI D’AUTUNNO. Pensato fra le suggestioni della casa di campagna di Mia Farrow in Connecticut per una realizzazione in loco; spostato come ambientazione nel Vermont poiché nel frattempo era arrivato l’inverno, infine realizzato in studio a New York senza una sola ripresa in esterni, “Settembre” è un pezzo di teatro girato come un film, con i classici, magistrali, “piani lunghi” di Allen (che non usa mai l’espressione “piano-sequenza”), in cui gli attori si muovono in studiata libertà e la macchina li segue, li anticipa, li attende. Le sue belle luci autunnali sono magie di Di Palma, fra le belle boiseries delle scene di Loquasto e le tende di questa casa di vacanze immaginaria del profondo nord americano. La scena si svolge in due giorni di fine agosto.

Chi dice di rimpiangere le mezze stagioni, ha in Woody Allen il proprio autore di culto: per lui esistono solo quelle. I suoi film sono esclusivamente primaverili (la minor parte) e autunnali (la maggiore). Colori, paesaggi, abiti – onore delle sue magnifiche costumiste – cromatismi, appartengono all’infinita tavolozza delle tonalità autunnali, ma – questo è il punto – come risultato di una ricerca colta, radicalmente antinaturalistica: “un bel tramonto fuori dalla finestra o lo stormire delle foglie per me non hanno mai voluto dire nulla”, confida Woody al suo biografo Eric Lax. Di questa gamma di tonalità, il rosso, l’oro e il suggestivo monocromo arancione di certe sequenze di “September” costituiscono un punto estremo nell’uso creativo della luce artificiale.

A NEW YORK! A NEW YORK!    Quando la macchina da presa avanza fra le stanze della casa, i sei personaggi principali di “September” ancora non vi hanno preso posizione. Sono: Lane (Mia Farrow), una fotografa quarantenne con un passato di fragilità nervosa, sempre un po’ in soggezione rispetto alla madre; sua madre Diane (Elaine Stritch), un’ex attrice egocentrica e insopportabile, con il suo ultimo marito, Lloyd (Jack Warden), un fisico che filosofeggia in senso positivista sul cosmo e sulla vita, e un giovane scrittore, Peter (Sam Waterston), che la segue ovunque per scriverne la biografia. Lane ne è segretamente innamorata. Vita e carattere della giovane donna portano i segni di un antico fatto di sangue: aveva quattordici anni quando, per difendere la madre da un compagno violento, aveva sparato uccidendolo. Completano il gruppo un’ospite, Stephanie (Dianne West), la migliore amica di Lane, corteggiata a sua volta con insistenza dall’aspirante biografo (ma è sposata con due figli piccoli), e Howard, un insegnante di francese vicino di casa (Denholm Elliott), affezionato a Lane.

Siamo alla fine. Quel che doveva succedere è successo. Un po’ alla volta, madre, marito, scrittore e vicino lasciano la casa. Rimangono, sole, le due amiche. Lane ha trovato il coraggio di aggredire la madre, liberandosi di quell’enorme non detto che le ha segnato la vita: fu la madre a sparare, e i suoi avvocati a costringere lei a caricarsi di una colpa non sua. Il suo grido non sembra avere scosso più di tanto gli ospiti. Neanche la madre, che passati i primi istanti, reagisce con un’alzata di spalle: e allora? Si toglie comunque dai piedi, con qualche affettuosità di maniera; è già qualcosa (progettava di rimanere a vivere lì). Respinto, dopo qualche esitazione, da Stephanie, il copyrighter gela anche Lane: non ha alcun interesse per lei, punto e basta. Il suo progetto letterario è fallito prima di cominciare. La storia dolorosa e suggestiva di un’adolescente assassina per difendere la madre è diventata quella, molto meno glamour, di una madre, circondata dai suoi avvocati, “assassina” della figlia (oltre che, senza virgolette, dell’amante). Per Lane la fatica del gesto si aggiunge all”ennesima delusione amorosa. È ferita, ma non a morte. Piange, spossata. Ha temuto di non poter vendere la casa (ne ha bisogno) per trasferirsi a New York. Lo farà. In questa sagra delle ambizioni sbagliate e delle illusioni perdute, lei, la più illusa di tutti, è quella che può farcela. Lo vuole. Settembre ritrova il suo antico ruolo di fuoco delle possibilità. In città riaprono i cinema, i teatri, i locali, il lavoro, la vita. È vita, la città. I mesi precedenti hanno deluso; non lo farà settembre. “A Mosca! A Mosca!” dicono le tre sorelle. A New York! A New York! invocano le due amiche. Le giornate, più brevi e intense, ci porteranno a Natale. Poi, con l’anno nuovo, i giorni torneranno ad allungarsi; riprenderà l’attesa della primavera e scoppierà un’altra estate.

“Fra qualche giorno è settembre”, dice Stephanie, che a casa ha lasciato marito e figli. “I ragazzi tornano a scuola; ci vogliono nuove scarpe e nuovi libri”. Appunto. È ora di tornare. Si riparte.

 

DI NUVOLE E SOLE. RACCONTO D’AUTUNNO.

Magalì (Béatrice Romand) è di origine tunisina. Arrivata in Francia a sette anni, ne ha ora 45 e da qualche anno è precocemente vedova. Ha appena chiuso gli occhi al padre, ha due figli che vivono per conto loro, una testa di un miliardo di capelli ricci che è un nido di passeri, un carattere un po’ scorbutico, che solo Rosine, l’affezionatissima ragazza del figlio, riesce ad addolcire. Viticultrice in Ardèche (Bourg-Saint-Andéol) è irriducibilmente legata ai dogmi della viticultura “biologica”. Niente diserbanti, quindi, e fra le vigne di uva nera una quantità di erbe, matte e no, che conosce una per una. È orgogliosa del suo “Côte de Rhone” riserva e convinta delle sue grandi potenzialità.

Isabelle (Marie Rivière) è la sua più cara amica, forse l’unica. Alta, bionda, occhi azzurri (gli opposti connotati delle due amiche avranno un ruolo nella storia), è libraia a Saint Paul Trois Chateaux, un paesino nei pressi, dall’altra parte del Rodano; ha una bella casa, in mezzo a quello che chiama giardino ma è un parco; è sposata e con due figli, di cui la femmina, diversamente simpatica, sta per andare a nozze. Isabelle prende a cuore la solitudine e la rustica timidezza di Magalì e contro il suo parere, sdegnosamente contrario, inserisce il proprio nome, con alcuni spiritosi requisiti, fra quelli di un sito di annunci matrimoniali. Intende condurre personalmente la selezione degli eventuali candidati. Un elegante vedovo di bella presenza risponde…

Più ambigua e misteriosa è la trama che, all’insaputa di Isabelle, sta tessendo con lo stesso fine Rosine. La quale è, sì , la ragazza del figlio di Magalì, ma ha un ex, molto più grande di lei, del quale sembra non volere liberarsi del tutto: un suo vecchio professore di filosofia, di quelli che delle allieve non curano solo la cultura. Ma è più sottile (e meno torbido) di quel che appare il gioco della bella Rosine: perché non presentare alla futura suocera il bel professore, liberandosene una volta per tutte? (Ma avrà poi lui tutta sta voglia, persa Rosine, di rinunciare alle sue fruscianti ventenni per una coetanea forastica che vive fra i tini e le vigne?) Tutte le storie, ovviamente, troveranno confluenza al matrimonio della figlia di Isabelle, e il vino di Magalì avrà la sua parte in commedia. Ma con Rohmer non si sa mai.

Eric Rohmer appartiene al settecento più luminoso, quello di Beaumarchais (“Le nozze di Figaro”, “Il barbiere di Siviglia”) e di Pierre de Marivaux, tessitori di quelle incantevoli trame sui giochi del caso e dell’amore che da quest’ultimo prendono il nome di “marivaudages”, care a molta Nouvelle Vague compreso il primo Godard. L’altra faccia della luna, rispetto al dottor Čechov rivisitato da Allen. Ma il motivo per cui questo “Conte d’autumn” è interessante come contrappunto cinematografico di “September” non è l’abissale differenza fra le atmosfere dei due film, che nell’intreccio hanno anzi più di un punto di contatto (ad esempio, in entrambi è una scena intravista aprendo per sbaglio una porta a creare equivoci e dissapori fra i personaggi – ah, le porte! – più amari in Allen; più lievi, ma anche più maliziosi, in Rohmer). Sono i due autunni a rappresentare due diverse concezioni, del cinema e del mondo. Quello francese ed europeo di Rohmer è l’opposto dell’autunno americano di Allen. Sono i due poli della principale e primigenia fra le antinomie su cui si fonda la storia del cinema: la realtà documentaria dei Lumière, da una parte; quella fantastica e teatrale di Georges Méliès, dall’altra. L’uscita degli operai dalla fabbrica e le signore con i bambini sotto la pensilina della Gare de Lyon, di qua; la magia, il viaggio sulla luna, la testa tagliata in scena della signora, di là. L’autunno di Woody è finzione, artificio di luci e scene; quello di Rohmer è un tripudio di nuvole e sole e vigne e uccelli e oche, anitre, rane, insetti. Tutti quelli messi in scena dal Dio della valle del Rodano, gli insetti: un sabba di grilli, cicale, api, farfalle. Mosche, va beh, anche quelle. Se Woody dice che a lui gli stormir di fronde al cinema non dicono niente, Rohmer ne ubriaca la scena. È tutto un volo e un agitar di foglie. In fondo, ciò che incantava i primi spettatori nel cinema delle origini – lo ricordava Alberto Farassino – non era proprio il veder muoversi le foglie? Tutto il resto lo avevano già visto, a teatro. Il vento no. Ecco, abbiamo anche noi Cinecittà e ogni paese europeo ha i suoi studios, ma l’Europa resta lumièriana. Mélièsiana l’America. Hollywood – come tutti gli altri, del resto – non è solo un modo di produzione; è una visione del mondo, che resta anche in chi se ne tiene lontano, come Woody Allen. Perché quel mondo è lo stesso per tutti. Nessuno come l’euro-americano Martin Scorsese poteva racccontare la favola di Georges Méliès meglio di quanto abbia fatto lui in “Hugo Cabret”. Niente come il lavoro dell’Institute Lumière di Lione testimonia le radici del cinema europeo e come il cinema neorealista di Roberto Rossellini (tutte le nouvelles vagues degli anni sessanta sono rosselliniane) illustra i fondamenti del moderno cinema europeo. Il settembre di Rohmer è rinascita fisica, materiale e materica, terrestre. Tripudio vitale di colori e intelligenza, di vino e di malizia, di vento e di trame leggere come un volo di farfalle. Mentre una canzone scritta da Rohmer e dal nostro Antonello Salis (presente fra i musicisti con bandana e fisarmonica) augura agli sposi: “Se la vita è un viaggio / che ci sia sempre bel tempo / verde e blu e fiori selvatici / buon viaggio, figli miei”, il largo scialle di Rosine sale e scende, a coprire e scoprire spalle, schiena e il riso di chi del passare del tempo e delle stagioni può solo ridere.