Che l’economia del lusso sia un importante assett dell’esportazione italiana, è un dato ormai acquisito. Molti invece si stupiranno nel sapere che il “Made in Italy” non nasce certo oggi. Al contrario, tutto cominciò addirittura otto secoli fa, a Firenze. Risale all’epoca il bellissimo, ancora oggi ben visibile palazzo dell’Arte della Lana, simbolo di un potere che stava tutto racchiuso in un dato: ben un terzo della popolazione attiva era impiegata nel settore. E quando il settore perdette il primato delle confezioni di lusso, questo accadde solo perché a sostituirlo fu l’Arte della Seta.

A sostenere questa impresa del lusso c’era un complesso meccanismo economico. Innanzitutto, si dovevano mettere insieme i capitali necessari all’acquisto delle materie prime. Di qui la formazione di compagnie di imprenditori, alle quali partecipavano anche le banche di affari.

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Per quanto riguarda la lana, le pecore che pascolavano in Toscana e nelle altre regioni italiane non erano in grado di fornire il morbido vello di cui erano fatti i mantelli delle gran dame. Per procurarsi la lana più calda e fine necessaria per confezionarli occorreva dunque spingersi fino in Spagna o addirittura in Scozia.

Una volta acquistata la materia prima, si dava il via alle varie fasi della lavorazione: lavaggio, pettinatura, cardatura, filatura, fino al tocco di classe della tintura. Prendiamo un colore molto amato quale il blu. Se per gli abiti comuni era sufficiente il tenue azzurro dato dalla Isatis tinctoria, una pianta coltivata nella piana tiberina di SanSepolcro, per i vestiti dei signori serviva ben altro. Occorreva lo sfolgorante blu oltremare, che si ricavava dai lapislazzuli. Una tintura rara, preziosa e costosissima, dal momento che i lapislazzuli si doveva andarli a comprare dove si estraevano, in Afghanistan o in Siberia. Come bisognava arrivare sulle sponde opposte del Mediterraneo per trovare il murice, una conchiglia dalla cui secrezione ghiandolare si ricava l’altrettanto caro rosso porpora, indispensabile per le braghe dei signori nobili, i quali non si accontentavano certo del rosso tendente all’arancione che si ottiene da un locale lichene, la roccella tinctoria.

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Per fissare i colori sui tessuti si ricorreva alla cenere o, meglio ancora, all’allume. Sennonchè, almeno fino a quando non si scoprirono i giacimenti di alunite sui relativamente vicini monti della Tolfa, per procurarselo bisognava nuovamente mettersi in viaggio e raggiungere l’Anatolia.

Come si può vedere, il Made in Italy dell’epoca era caratterizzato da un continuo andirivieni per il mondo. Reso assolutamente indispensabile, se si voleva mantenere il carattere di esclusività degli abiti, dal fatto che in Toscana e in Italia non esistevano le materie prime in grado di fare la differenza fra una confezione di lusso e una comune.

La lavorazione era molto parcellizzata e veniva effettuata in luoghi distinti e da lavoratori che avevano differenti livelli salariali. Ciò, oltre ad assicurare vantaggi di carattere economico, impediva anche pericolose aggregazioni in grado di favorire le rivendicazioni collettive dei lavoratori. Che fosse la scelta giusta per i protocapitalisti dell’epoca lo dimostra il fallimento della Rivolta dei Ciompi, i quali provarono a ribellarsi nel 1378. Dovettero però ben presto rientrare nei ranghi perché i mercanti organizzarono una serrata, mettendoli contro gli altri lavoratori.

Per tornare al ciclo produttivo della lana, l’ultimo atto dell’impresa era la commercializzazione, la quale poté contare su “pubblicitari” e testimonial d’eccezione che, oltre a decretare al tempo il grande successo del “made in Italy”, gli permisero di fissarsi nell’immaginario collettivo del mondo occidentale: i grandi pittori dell’epoca. I quali, per dipingere i vestiti dei nobili e delle dame raffigurate nei loro dipinti, per riprodurre nei quadri le stesse tonalità che le vesti delle Madonne e dei sovrani avevano nella realtà, usarono gli stessi colori utilizzati per tingere le confezioni, in un corto circuito di abbagliante bellezza tra la tela e la realtà.

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