Il 2020 è stato forse uno degli anni più lunghi di sempre. Sembra incredibile eppure, non più tardi di dieci mesi fa, la crisi scatenata dall’epidemia di Covid19 ci gettava nel caos, sia come singoli che come società, obbligandoci a navigare a vista.

Sommersi da informazioni contraddittorie e da scenari che mutavano di ora in ora, abbiamo però assistito a un momento davvero speciale per la storia e gli equilibri politici dell’Unione Europea, dal quale non si potrà più tornare indietro. Dopo alcuni passi incerti, raccolte le forze e messi da parte gli egoismi nazionali, l’Unione si è dimostrata in grado di dare una risposta forte e coordinata che ha poi trovato concretezza nel piano Next Generation EU.

Il piano da 750 miliardi ha sparigliato le carte in tavola in tre modi: ridisegnando l’identità dell’Unione Europea – non più un’astratta entità lontana dalle nostre vite, ma un attore in grado di influenzare la nostra quotidianità; relativizzando l’importanza di questioni che hanno ossessionato per decenni la nostra politica, come l’ammontare totale del debito nazionale (oggi paghiamo la cifra più bassa dalla Seconda guerra mondiale per sostenerlo); accresciuto il rilievo della capacità dei governi, non solo di programmare accuratamente i propri investimenti ma, nel farlo, di indicare in maniera esplicita il modello di società al quale aspiriamo.

E altrettanto significativo è il nome scelto per questo piano, Next Generation EU, un invito, cioè, a guardare al futuro: non solo ai cittadini di oggi ma anche a quelli di domani.

Ursula von der Leyen

Ursula von der Leyen

È cruciale infatti, che la nostra società istituzionalizzi l’impegno verso le generazioni future, creando opportunità di sviluppo e crescita economica da un lato, ma anche facendo in modo che tale crescita sia più sana e giusta. Ripensare all’importanza dell’aspetto quantitativo della crescita comminandolo con quello qualitativo.

Un esempio di tale impegno è naturalmente la lotta al cambiamento climatico, una battaglia la cui importanza non si può esagerare e che possiamo vincere solo ripensando i nostri modelli di sviluppo. Questo non solo perché si tratta di una battaglia giusta, ma anche banalmente perché le conseguenze del cambiamento climatico si riverseranno sui cittadini di domani in termini di variazione del valore dei beni, migrazioni di massa, modifiche nelle dinamiche sociali e così via.

Tuttavia, l’aumento della vita media e il basso tasso di natalità stanno trasformando la demografia dell’Ue. Le fonti indicano un aumento costante della popolazione over 65 cui solo parzialmente riesce a far fronte l’arrivo di immigrati, generalmente più giovani.

Come possiamo allora assicurarci che gli interessi delle future generazioni siano rappresentati pur costituendo una porzione minoritaria del Paese? Come evitare che  gli incentivi politici diano vantaggio a chi propone politiche a favore della fascia sovrarappresentata?

L’Italia, avendo l’età mediana più elevata dell’Unione, dovrà trovare velocemente risposte e potrebbe mostrare la via ad altri Paesi.

Polarizzare la battaglia in termini di “fare gli interessi dei nonni oppure quelli dei nipoti” è infatti una ricetta fisiologicamente perdente, come si è dimostrato perdente, in questi mesi, contrapporre il diritto alla salute con la necessità della ripresa economica.

Misure efficaci, che siano cioè attuabili ma creino un valore anche per il futuro, possono essere individuate soltanto tramite un processo di co-creazione tra le parti in causa. È dunque di fondamentale importanza trovare un modo per dare voce ai giovani.

È cruciale incentivare lo sviluppo di un dialogo tra generazioni. Di più, è necessario assicurare all’interno di questo dialogo, una pletora il più possibile diversificata, in modo da recepire input che tengano conto delle esigenze diversificate in base al genere, al livello di istruzione, alla provenienza, a quello culturale e socio-economico etc. Non da ultimo, è fondamentale una comunicazione massiva sui luoghi, i modi e le possibilità di tale interlocuzione, enfatizzandone la necessità e spingendo affinché la possibilità di partecipare non sia appannaggio di pochi privilegiati o dei particolarmente volenterosi. La spinta dal basso è già visibile, specialmente a livello di associazioni e movimenti. Lo Stato vincerà se saprà mettere a sistema questo impulso.

Quando il valore dell’equità intergenerazionale sarà intrecciato nella struttura della nostra società – e perché no della nostra Costituzione, nelle nostre leggi, nei nostri modelli culturali – potremo prendere misure strategiche per il futuro. Viceversa, saremo costretti alla miopia, e a operare tattiche che ci consentiranno solo di tirare a campare. Per un po’ almeno.