Erdogan, parabola del sogno turco dell’Europa

La forma è sostanza, soprattutto in diplomazia.

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Il dibattito pubblico scaturito dallo scandalo del sofagate, cha ha visto la Presidente della Commissione Europea Von Der Leyen lasciata a distanza sul divano dal Presidente turco Erdogan mentre quest’ultimo si intratteneva con il Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, è sintomatico di un rapporto sempre più complesso tra Ankara e Bruxelles. Il Presidente del Consiglio Mario Draghi dopo l’accaduto ha definito il presidente turco un “dittatore”, con il quale però l’Europa deve saper dialogare al fine di dar voce ai propri interessi.

La domanda che sorge è se l’Europa può effettivamente dialogare con il Sultano.   Una breve analisi dell’Erdoganesimo, inteso quale  sistema sia di politica domestica sia estera della Turchia contemporanea e del suo rapporto con l’Europa, potrà essere utile per chiarire alcune idee.

L’Idilio turco-europeo

La Turchia ha attraversato un periodo “europeista”, incentrato sulla volontà di moderarsi rapidamente per essere inserita a pieno titolo nella sfera occidentale. Il suo percorso verso l’integrazione è iniziato già nel 1963 , con la firma dell’Accordo di associazione con la CEE, per poi ufficializzare la sua candidatura di adesione nel 1987.  Nel 1999 il Consiglio europeo di Helsinki le conferiva lo status di paese candidato che ha portato nel 2004 all’avvio dei negoziati di adesione. Il suo mercato è andato via via integrandosi con quello europeo soprattutto nei settori tessile ed agroalimentare, grazie ad Unione doganale unica nel suo genere.

Parallelamente all’ integrazione economica avveniva un allineamento turco ai valori europei, ratificando varie convenzioni del Consiglio europeo o votando in favore di molte dichiarazioni ONU tra le quali spiccano la Convenzione sullo statuto dei rifugiati (1951), la Dichiarazione sull’eliminazione di tutte le forme d’intolleranza e di discriminazione fondate sulla religione o il credo (1981), la Convenzione contro la tortura (1984) , la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti, la moratoria universale della pena di morte (2007) e la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne (2011) . Nel 2004 Erdogan a nome della Turchia aveva persino firmato il progetto di Costituzione europea.

Il fallimento delle primavere arabe scoppiate nel 2011 e l’accedersi di conflitti in Siria ed in Libia hanno portato nel2016 l’Unione Europea  a sottoscrivere con Ankara un discusso Accordo per arginare i flussi migratori.

Tutt’oggi la Turchia rimane un partner importante per l’Europa e viceversa. Questo è confermato da diversi dati: l’UE è infatti il primo partner commerciale della Turchia mentre la Delegazione UE ad Ankara è la più grande tra le 142 missioni diplomatiche dell’Unione. Tuttavia, le autorità turche ora sembrano ben lontane da condividere quei valori europei che un tempo professavano, mentre le relazioni con Bruselles si fanno sempre più tese e continua la centralizzazione del potere nelle mani del presidente Erdogan.

L’ evoluzione del “Sistema Erdogan”

“L’ordine democratico deve essere rispettato”, va sostenuto “il governo turco democraticamente eletto”!  Queste furono le parole pronunciate da Barack Obama e Angela Merkel in sostegno del presidente Erdogan nelle ore del concitato tentativo di golpe militare avvenuto nel paese nel 2016. Nonostante le dichiarazioni, quella sera l’aero del presidente turco volava a vuoto nei cieli d’Europa, senza che una sola capitale desse il via libera all’atterraggio nei propri aeroporti.  È proprio da quella sera d’estate che bisogna partire per comprende come la visione europeista dell’establishment turco sia mutata radicalmente verso un sistema di stampo sempre più autoritario.

Foto di Hans Braxmeier da Pixabay

Certamente, il golpe è stato sintomo di un malumore crescente in una parte della società turca che mal sopportava il “sistema Erdogan”. Il presidente, infatti, ha rotto con la tradizione Kemalismo, ossia l’ approccio ereditato dal padre della patria Mustafa Kemal “Ataturk” che poneva le basi di uno Stato turco repubblicano e laico. Erdogan si è spostato verso un sistema moderatamente islamista ed ha rafforzato i poteri presidenziali via referendum. La divisione dei poteri tra magistratura, governo e parlamento è divenuto sempre più flebile, così come si assiste ad un progressivo deterioramento di alcune libertà.

Sono gli anni tra il 2013 ed il 2015 che vedono accentuarsi le tendenze autoritarie: le proteste a parco Gezi e piazza Taksim a Istanbul vengono represse dalla polizia, naufragano i negoziati di pace con il partito curdo PKK, si fanno più frequenti le limitazioni alla libertà di stampa, l’ ex alleato e predicatore Gülen (emigrato in America) è accusato di corruzione ed i suoi seguaci perseguitati.

Ma è il tentato golpe del 2016 che cambia tutto, segnando la svolta.

Uno dei primi atti pubblici di Erdogan dopo aver ripreso il potere è la visita alla tomba di Abu Ayyub al-Ansari, un compagno del Profeta Maometto  morto combattendo nel primo assedio di Costantinopoli (674 d.c.).  La Tomba di Abu Ayyub ha un forte valore simbolico poiché è il luogo dove i nuovi sultani ottomani venivano incoronati. Il simbolismo è chiaro. È un consolidamento del potere ma anche un ritorno alle origini. Prende forma istituzionale il primo “Erdoganesimo”, quello incentrato su un chiara connotazione religiosa, che nei primi anni della sua carriera politica come sindaco di Istanbul gli era costato una condanna a 10 mesi di reclusione per aver incitato gli abitanti a “ trasformare le moschee in caserme, le cupole in elmetti e i fedeli in soldati” al fine di ribellarsi alle dimissioni del Primo ministro Erbakan imposte dai militari.  Comincia così lo smantellamento definitivo del kamalismo. Viene sancito un nuovo connubio tra religione e stato concretizzato dalla trasformazione di Santa Sofia in moschea. Il sistema repubblicano è ormai controllato dalla figura presidenziale, è demolito il ruolo dei militari come guardiani degli equilibri politici e sostituiti dalla presenza capillare del partito Giustizia e Libertà (AKP) che Erdogan aveva fondato prima di salire al governo nel 2004. Parallelamente iniziano le purghe interne agli apparati militari, alle università e alla stampa con migliaia di condanne e arresti. Anche le istituzioni economico-finanziarie sono vengono legate al potere presidenziale, come dimostrato dai recenti cambi ai vertici della Banca Centrale Turca che hanno scosso l’economia locale.

Il neo-ottomanesimo

La percezione delle autorità turche di essere state abbandonate o addirittura tradite dagli alleati europei ed americani durante il golpe del 2016 riaccese la cosiddetta ‘sindrome di Sèvres’, un sentimento di rivalsa nazionale contro le interferenze straniere e una mobilitazione popolare in chiave ultranazionalistica. Nel 1924 questo senso di rivalsa, incanalato da Kemal “Ataturk”, aveva portato alla revisione degli accordi di Sèvres che avevano smembrato l’impero ottomano e alla creazione della moderna Repubblica di Turchia con il trattato di Losanna.  Erdogan alla stessa maniera cerca ora di esternalizzare l’ultranazionalismo turco, attuando una politica sempre più assertiva che radicalizza la ricerca dell’interesse nazionale al fine di ritagliarsi una posizione dominante nel mediterraneo orientale, seguendo le dottrine della “patria blu” e di “profondità strategica” ideata dal Ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu.  Così il “neo-ottomanesimo” di Erdogan ha portato la Turchia a farsi protettrice dei “fratelli mussulmani” in Nord Africa (provocando gelo nei rapporti con Egitto ed Arabia Saudita),  ad occupare militarmente i confini settentrionali del Kurdistan siriano ed Irakeno, ad intervenire al fianco dell’Azerbaijan in Nagorno Karabakh ed a salvare il governo tripolino in Libia. È proprio la Libia a diventare incarnazione della proiezione esterna del Erdoganesimo, riaffermando la sfera d’influenza turca  su quelle ex-province ottomane che l’impero perse nella guerra con l’Italia del 1912 e che ora il Presidente turco strumentalizza per recuperare il consenso in patria attraverso fruttuosi accordi di ricostruzione e per attività estrattive nei fondali marini. 

Erdogan ed Europa in rotta di collisione?

Chiaramente l’Erdoganesimo, sia interno che in politica estera, risulta difficilmente conciliabile con la visione europea. Le questioni aperte sono tante, forse troppe.  Dall’Accordo sui migranti che rischia di saltare una volta per la condanna delle istruzioni europee all’intervento militare in Siria e l’altra per la mancata liberalizzazione dal visto Schengen per i cittadini turchi. Si acuisce poi l’instabilità nell’area mediterranea. Erdogan oltre ad inviare truppe ed armi in Libia, violando le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, avanza rivendicazioni in acque Greche e Cipriote ed invia navi sonda ad esplorare il mediterraneo orientale intralciando progetti energetici europei quali EastMed. Inammissibili poi per le istruzioni europee le continue problematiche relative ai diritti umani, culminate nel recente abbandono della Convenzione di Istanbul sul maltrattamento della donna.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Nonostante i molteplici punti di frizione, Erdogan ci serve. Che ci piaccia o no, come ha ribadito Draghi, bisogna saper dialogare anche con lui. Una nuova crisi migratoria, causata dall’apertura delle frontiere turche e da un’ eruzione delle tensioni in Libia,  unita a quella pandemica e alle difficoltà economiche da quest’ultima scaturite, diventerebbe un fardello troppo grande da affrontare anche per un’ Unione che ,come ci ricorda Jean Monnet, ”si forgia nelle crisi”. Ma allora cosa fare? Rinunciare ai nostri valori in nome della ragion di stato oppure ergerci a paladini dei valori europei accettandone le conseguenze?

Accetteremo ancora di sederci sul divano del sultano?

Foto di apertura di Gordon Johnson da Pixabay