Quando si raggiunge l’età di settant’anni, è inevitabile pensare a quale sarà la comunità umana alla quale apparterranno i miei figli. Non mi voglio appropriare di nulla: ho seguito coloro che considero i miei maestri. Yuval Harari, Jaques Attali e Amin Maalouf, i migliori skipper che ho trovato: perché analizzano il passato per formulare ipotesi credibili sui più grandi rischi che corriamo. Non sarei certamente capace di fare una sintesi del loro pensiero, e non ce ne sarebbe lo spazio, in questo antico e rinnovato giornale. Del resto ormai sappiamo già molto sulle grandi sfide, il disastro ambientale, i rischi delle tecnologie di punta, la paurosa crescita delle diseguaglianze, la minaccia dei populismi alle nostre troppo mature democrazie.

Ma c’è una contraddizione, che mi affascina, e che merita più attenzione. Mai nella lunga storia dell’umanità gli esseri umani hanno avuto la possibilità di vedersi e di conoscersi come oggi, grazie alle antenne paraboliche, internet, i social media e le compagnie aeree low cost. Mai come ora hanno potuto condividere idee, desideri e prodotti, mangiare le stesse cose, vestirsi allo stesso modo, ascoltare le stesse musiche, vedere le stesse serie televisive su Sky e Netflix, copiarsi ed imitarsi.

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Dovrebbe risultarne una comunità globale orizzontale e quasi noiosamente uniforme.

Invece tutt’altro. Risorge con forza l’affermazione di sempre più piccole identità, basate su luoghi geografici e culture sempre più limitate e circoscritte, rivendicate non per difendere antiche tradizioni, ma per costruire muri e steccati. Non si tratta più soltanto della diversità delle facce o del colore della pelle: siamo battisti, metodisti, luterani o mormoni. Apparteniamo ai Testimoni di Geova, Scientologi, all’Opus Dei, ai Catecumenali, a Comunione e Liberazione, alla Comunità di Sant’Egidio. Siamo Hassidim, Lubavitch o Haredim e non semplicemente ebrei, come tanti nel mondo e moltissimi cittadini dello Stato di Israele. Negli anni ‘60 il leader egiziano Nasser era un sunnita, mentre sua moglie era sciita, ma allora non importava a nessuno. E la riscoperta di queste due grandi ortodossie dell’Islam non ha impedito il formarsi di comunità e sette ancora più piccole, che fanno a gara per appropriarsi della vera fede.

C’è qualcosa di male nel sentirsi appartenenti a questi piccoli gruppi, rivendicando la condivisione di principi, valori, di rassicuranti identità? No, certamente non ci sarebbe nulla di male, come nulla di male ci sarebbe nel sentirsi fiammingo, vallone, corso, basco, lombardo o siciliano. Sorvolo sulle migliaia di identità dei popoli asiatici e africani. Ma allora perché in un mondo di uomini e donne così uguali, tutti si affannano ad appartenere a comunità sempre più piccole?

È la paura di perdersi, di non sapere più chi siamo, quali sono le nostre storie, cosa racconteremo ai nostri figli. Ma la spiegazione più convincente di questa incredibile contraddizione me l‘ha suggerita Amin Maalouf, il grande scrittore libano-francese.

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Gli esseri umani hanno perduto le grandi ideologie del novecento, e soprattutto il socialismo. In una visione puramente ideologica, poco importa che il socialismo abbia tradito i suoi principi fondanti, dando vita a sanguinose dittature e a sistemi economici incapaci di assicurare benessere e sviluppo. Tutti i popoli, di tutti i colori e di tutte le fedi avevano potuto riconoscersi nel grande ideale di sistemi politici che avrebbero garantito uguaglianza nella disponibilità di beni e diritti. Il socialismo si era affermato sull’appartenenza a razze, etnie e fedi. Il successo incondizionato del liberismo economico ha generato ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri e neppure le incredibili conquiste della scienza e della tecnologia hanno potuto ridare fiducia alla società umana. È diffusa la convinzione che non tutti potranno beneficiarne, e il cocktail di rassegnazione, delusione, frustrazione e paura spinge gli esseri umani a rinchiudersi in valli sempre più piccole, che sembrano verdi perché ci abitano quelli come noi. Ma queste valli servono solo a difenderci, a difenderci dagli altri, quelli che non sono come noi. E allora odio e conflitti saranno la conseguenza naturale di un mondo che ha perduto il sogno di assicurare ad ogni uomo, ad ogni donna sopravvivenza ed uguale dignità. Ma Harari ci ricorda quanto abbiamo bisogno di narrazioni: il socialismo aveva il grande vantaggio di essere un’ideologia laica ed universale, che poteva mettere d’accordo tutte le fedi. Tutte le politiche e i provvedimenti dei governi più illuminati a favore dei più deboli non saranno mai sufficienti a sostituire una grande narrazione, un grande sogno, del quale gli esseri umani non potranno mai fare a meno.

Lo scenario appare terribile, eppure i tre grandi intellettuali che così bene ce lo presentano, concludono i loro studi con una fantastica ammonizione: sempre nella storia gli esseri umani hanno dimostrato di saper riprendere in mano il loro destino, di saper combattere e vincere il lato oscuro della forza. Durante la guerra fredda molti predicevano che l’umanità sarebbe finita con il disastro del conflitto nucleare. Ma non è successo.

I regimi comunisti non sono riusciti a realizzare il socialismo come sistema politico, però resta la grande narrazione, il grande sogno. Riusciremo a costruirne un altro, che possa raccogliere sotto la sua bandiera, valori e fedi di milioni di uomini della società globale?