Per salvare il pianeta l’Europa fa scelte forti e strutturate pensando soprattutto ai giovani. Gli errori del passato e la necessità di fare presto.

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Abbiamo perso troppo tempo. La Conferenza sul Clima di Parigi del 2015 aveva stabilito cosa e come fare per limitare il riscaldamento globale. Gli anni successivi sono stati una teoria di adesioni e dissensi. In ogni Paese abbiamo visto all’opera favorevoli e contrari a politiche ambientaliste, vieppiù accertate come unica soluzione per salvare il pianeta. A Capi di Stato colpevolmente negletti ad accettare la strategia di Parigi 2015, si sono opposti via via movimenti coscienti dei rischi che correva – e corre tuttora – l’umanità. Una fortuna; una straordinaria ventata di ottimismo che ha destrutturato la narrazione ambientalista imponendo alle élite politiche, finanziarie, industriali un’agenda del fare.

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Ovunque nel mondo la battaglia per il clima si è rafforzata. E sarebbe davvero lungo riportare qui l’elenco di persone ed eventi che hanno dato sostanza a un necessario New Deal. Quando l’Unione europea ha chiamato proprio così «Green New Deal» la strategia per ridurre gli impatti climatici entro un certo tempo, un velo si é alzato sulle classi dirigenti degli Stati membri. La Presidente Ursula von der Leyen ha definito un percorso tanto ambizioso quanto di valore. Una strada da aprire soprattutto per le generazioni future. Nelle piazze, sui social, nel nuovo cammino i giovani hanno ritrovato anche i propri genitori in un sentiment positivo e proattivo.

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L’Europa ha fissato due traguardi: 2030, 2050. Il primo, ravvicinato da qui a nove anni, prevede la riduzione delle emissioni di gas serra del 55% rispetto a quelle del 1990. Per il 2050, invece, si punta a zero emissioni, ovvero ad un‘economia « prospera, moderna, competitiva e climaticamente neutra ». Come sempre nella storia, l’energia segna trasformazioni che durano secoli: dal fuoco, al vapore, al carbone, alle estrazioni  dal sottosuolo. In ragione di queste forze della natura si sono fatte guerre, creati imperi, soggiogato popoli e civiltà che hanno fatto emergere anche infinite fragilità. Un pendolo che continua ad oscillare sullo sfondo ormai di un pianeta diseguale tra chi ha le risorse, chi le sfrutta e chi ne ha disperato bisogno. Svolteremo davvero?

La risposta è tutta nella capacità delle classi dirigenti di dare un senso compiuto alle buone intenzioni, che solo uno sprovveduto non manifesta. Ma mai come in questa sfida, gli strumenti e le azioni che ciascuno mette in campo vengono osservate e giudicate.

Il clima è un bene comune, di tutti e per tutti. «L’umanità è chiamata a prendere coscienza della necessità di cambiamenti di stili di vita, di produzione e di consumo, per combattere questo riscaldamento o, almeno, le cause umane che lo producono o lo accentuano» scrive Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si.

Terra e salute, clima ed economia, benessere e risparmi: da queste bipartizioni deve uscire una sintesi durevole e generale che verosimilmente è alla portata di tutti. Ma la generalità ha i suoi distinguo, in ogni campo. Come classificare il «Next Generation EU» dell’Europa se non lo sforzo di una scelta distintiva, forte, strutturata, in confronto a chi una strategia definita per domani ancora non ce l’ha? Ciò che si vede negli USA con la Presidenza di Joe Biden a recuperare il tempo perso da Donald Trump ne è forse l’esempio più lampante.

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D’altra parte non c’era bisogno di una devastante pandemia per capire tutti di dover allungare il passo verso un pianeta più sostenibile e meno disastrato. Davanti a centinaia di migliaia di morti non sfugge che l’opposto di una Terra armoniosa e protetta, ha accelerato la diffusione del COVID 19 in molte zone ad alto inquinamento. Dentro i confini della vecchia Europa i governi fanno i conti con le pesanti zavorre di un ambientalismo ideologico. Tutto ciò che ha condizionato – in peggio – l’evoluzione di un sistema economico-sociale sostenibile, tecnologicamente avanti, meno diseguale, viene rimesso in discussione. Una nemesi per coloro che hanno creduto e fatto credere che il progresso, qualsiasi nuova iniziativa industriale, ogni opera di utilità sociale, ogni sperimentazione energetica, fosse in contrapposizione all’equilibrio naturale del «creato», perché ne intaccava l’essenza. Invece c’è bisogno di più scienza, più ricerca, più innovazione, maggiore interazione. Chi non ha commesso errori nella spinta verso un equilibrio sociale non passatista che non ci facesse mancare nulla in quanto a comfort casalinghi, mobilità a quattro ruote, viaggi veloci, strumenti di benessere e piacere? La rivendicazione che tutto ci era dovuto in ragione di un indecifrabile diritto alla felicità ha finito per pareggiare il conto con il dovere di rivedere il nostro modo di vivere, produrre, consumare. Una trasformazione bifronte perché non torneremo nelle caverne solo se sapremo riconoscere gli errori e fare meglio di ciò che abbiamo fatto finora. Nessuno escluso.*****

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