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Nello scorso novembre ha circolato sui social e sul web la lettera di Marco Galice “Io vi accuso”. Ispirata nel titolo allo storico editoriale di Émile Zola, la lettera ha ricevuto molti commenti, in grandissima parte di lode per la schiettezza e di plauso e adesione al contenuto. Galice, professore nelle scuole superiori in Toscana, accusa con nomi e cognomi quattro noti personaggi televisivi «di essere tra i principali responsabili del decadimento culturale del nostro Paese, del suo imbarbarimento sociale, della sua corruzione e corrosione morale, della destabilizzazione mentale delle nuove generazioni, dell’impoverimento etico dei nostri giovani, della distorsione educativa dei nostri ragazzi». I quattro personaggi sono naturalmente solo una punta dell’iceberg della non-cultura dell’apparenza, che riesce a fare breccia su non pochi adolescenti, sedotti dal successo dei protagonisti televisivi che diventano così possibile modello comportamentale.
Sembra difficile dissentire dal contenuto della lettera/invettiva di Galice, e di fatto pochi commenti lo hanno fatto. La lettera/invettiva è assai interessante sotto vari aspetti. In primis per la forma esplicita, vivace, concreta, fortemente comunicativa. Poi per gli spunti di riflessione: i principali artefici dei pessimi modelli offerti ai giovani da certa televisione sono proprio i quattro citati personaggi? O piuttosto dietro a essi vi è molto altro? È infatti assai plausibile che i quattro personaggi siano solo un’espressione dei tempi attuali, di aspetti di debolezza che si sono preparati negli anni e decenni precedenti, e forse anche da molto prima. La crisi di valori più o meno universalmente condivisi, che sta sullo sfondo della lettera/invettiva, ha certo radici antiche, e sembra non facile pronunciarsi sull’origine di tali radici e sull’humus che le ha nutrite. Anzi, nel merito vi sono certamente opinioni diverse.
Non voglio qui esprimere un’opinione, ma solo cercare di riportare brevemente due profonde analisi su aspetti culturali e sociali dei nostri tempi, e che ho avuto occasione di leggere negli ultimi mesi. Esse sono contenute nei libri “Il crollo del Noi” di Vincenzo Paglia, Laterza, 2017, e “L’epoca delle passioni tristi” di Miguel Benasayag e Gérard Schmidt, ed. Feltrinelli, 2003. Trovo che il contenuto dei due libri sia illuminante per comprendere la capacità di seduzione del trash sugli adolescenti, e la difficoltà che gli educatori hanno nel far breccia in essa.
Vincenzo Paglia, teologo, filosofo, medaglia Gandhi dell’UNESCO, descrive nel primo dei due libri l’evoluzione nella storia dell’umanità della percezione del NOI, di quel complesso di esseri umani con i quali intrecciamo rapporti e delle cui vicende partecipiamo: la famiglia, i parenti, la piazza, una piccola o grande comunità che condivida una fede religiosa o politica, la città, la regione, lo stato, gli stati a noi vicini, per noi l’Europa. L’evoluzione del NOI è stata in qualche misura storica, certamente ideale. Un progressivo allargamento del NOI, fino all’attuale globalizzazione. Oggi ci interessano le vicende di tutto il mondo, tutto può influire su di noi. Seguiamo ogni giorno l’evoluzione della pandemia in tutti i paesi del mondo. Ma parallelamente il sentimento dell’essere un NOI, in origine circoscritto nello spazio ma assai forte nella percezione, si è progressivamente indebolito, e si sono frantumati i legami, a iniziare dai primi sopra menzionati. Cosa rimane? Certamente rimane l’IO, grande superstite dell’allargamento e conseguente crollo del NOI, l’IO potenzialmente ingigantito fino a coltivarsi nel narcisismo. Sono forse estranei al narcisismo molti attuali utilizzi dei social? E che dire della quotidiana esibizione di certi personaggi pubblici e non pubblici, non solo quelli della televisione spazzatura?
Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista franco-argentino, insieme a Gérard Schmit, nel suo libro parte invece dall’esperienza clinica, per sviluppare il tema delle “passioni tristi” di cui parlò Baruch Spinoza nella sua Etica. Sono queste le passioni improntate ad un senso di incertezza e di paura, che ci portano a rinchiuderci in noi stessi, piuttosto che rivolgere la nostra vita emotiva verso ciò che è esterno a noi. Chi è cresciuto negli anni della ricostruzione post-bellica ha ben vivo il ricordo delle passioni giovanili dell’epoca. Naturalmente delle passioni politiche, ma anche di quelle culturali o legate a esperienze di volontariato, e perché no delle passioni sportive e vacanziere.
Questo giornale nasce come “recupero” di alcune di queste passioni. L’epoca delle passioni tristi, secondo gli autori del secondo libro cui faccio riferimento, è purtroppo quella attuale: la prudenza che sconfina nella paura, la privacy nell’individualismo, la competizione nella frustrazione e nel rancore, il confronto nell’invidia, o addirittura nell’odio. Beh, se le cose stanno così, non è forse meglio crearsi un mondo alternativo? Per riprendere le parole di Marco Galice, «un mondo artefatto, falso, ingannevole», ma apparentemente brillante e di successo.
Vorrei concludere con una parola di speranza. In questi mesi in cui sembra che tutti abbiamo più tempo, potremmo per esempio riflettere che, se è vero che fare il genitore è il mestiere più difficile del mondo, anche fare l’insegnante non può essere facile. Forse più rispetto e considerazione sociale per chi ha l’importante compito di insegnare può servire a qualcosa. Non è un’ingenuità pensare che la valorizzazione della scuola aiuterebbe chi insegna ad avere ben presenti i valori educativi complementari dell’impartire nozioni e del suscitare passioni. Naturalmente non passioni tristi, ma passioni che siano ben coltivate e rinnovate in chi insegna. E aiuterebbe anche a ricordare, con Massimo Recalcati, che la forza emotiva di anche una sola ora di lezione può talvolta cambiare la vita di uno studente.