Una premessa per evitare che le considerazioni che seguono possano essere fraintese: sono un europeista convinto. Lo sono sempre stato. Fin da ragazzo ho abbracciato l’idea che fu di statisti illuminati quali Schumann, Adenauer, De Gasperi e Spaak, di un’Europa grande e forte, in grado di assorbire e di superare le divisioni che avevano trascinato al disastro di due guerre mondiali in appena una ventina d’anni e che fosse protesa a realizzare quell’unità di nazioni e di popoli che secoli di storia, di civiltà e di comuni ideali postulavano. A tal fine, da sempre ho sperato che l’inserimento dell’Italia in una Comunità (poi Unione) europea autorevole ed efficiente avrebbe posto rimedio a buona parte dei problemi e delle debolezze endemici del nostro Paese.
Ma la mia speranza è andata delusa. Errori basilari fra cui un troppo rapido allargamento del novero degli Stati membri, molti dei quali, per storia recente, non ancora maturi per condividere il disegno comunitario; il mantenimento del vincolo unanimistico per l’assunzione di iniziative che richiederebbero un’immediatezza decisionale ed esecutiva; e l’incapacità – o quanto meno l’estrema difficoltà – di stabilire linee d’azione comuni se non a seguito di lunghe ed estenuanti trattative, di delicati compromessi e di onerose contropartite, hanno impedito, e tuttora impediscono, all’Unione europea di muoversi con sufficiente scioltezza e con la necessaria tempestività in uno scenario internazionale complesso e soggetto a repentini mutamenti.
L’Unione europea è, oggi, un insieme di bei palazzi, a Bruxelles come a Strasburgo e non solo, con dentro poche idee e poche persone di valore, ove si svolgono attività esageratamente costose per quello che rendono. Non ha una politica estera autonoma, né una comune capacità di difesa e d’intervento militare. Non ha una strategia autonoma nel settore industriale ed in particolare in quello energetico, né una comune condotta circa un equilibrato prelievo tributario a carico degli individui e delle imprese, così da consentire ad alcuni Stati più spregiudicati (come l’Olanda, l’Irlanda, il Lussemburgo e Malta) di perpetuare politiche fiscali gravemente pregiudizievoli per larga parte degli altri Stati membri dell’Unione. E poi ci sono ancora tanti particolarismi, tanti egoismi, come pure recentemente dimostrato in tema di approvvigionamento di gas da una Germania che sta pericolosamente coniugando nazionalismo e socialismo. L’Unione europea ha fatto innegabili progressi nel campo della concorrenza, dell’agricoltura, della politica monetaria (anche se a Paesi come l’Italia quest’ultima ha causato – grazie anche al mancato controllo sui mercati da parte delle autorità nazionali – il dimezzamento del potere d’acquisto della moneta). Troppo poco, però, per legare indissolubilmente le comunità nazionali che la compongono.
All’Europa fanno male le divisioni, le iniziative autonome dei singoli Stati. Fanno male le prese di posizione dei singoli governanti, le missioni che ciascuno di essi fa per sè e per il proprio Paese, mentre dovrebbero essere compiute dagli esponenti apicali dell’Europa unita per conto e nell’interesse di tutti. Basti ricordare i guasti provocati dalla Francia di Sarkozy quando intervenne – da sola e all’insaputa dei partners europei – nella situazione interna della Libia.
Unione europea, dunque, da cancellare? No: solo da rifondare, da ricondurre alle origini, a quelle radici civili e cristiane dell’Occidente che nell’ultima sua Costituzione la politica della debolezza e del compromesso non ha neppure avuto il coraggio di affermare con legittimo orgoglio. Da rifondare dotandola, in primo luogo, di un Parlamento autorevole, con poteri effettivi, vigile su un Governo – la Commissione – con dicasteri e ministri che non siano, come oggi, soltanto dei nomi scritti sulla carta, ma che siano altrettanto autorevoli e in grado di esercitare poteri effettivi sulle materie che in ogni altra parte del mondo sono affidati agli Stati federali – o Confederazioni – lasciando altre materie, più connesse ai territori e alle situazioni locali, alla competenza dei singoli Stati membri.
Se non ci si muoverà – e presto – in questa direzione, penso che all’attuale Unione europea non resterà più molto tempo di sopravvivenza, nel cuore della gente prima che nei rapporti sovrannazionali.