In carcere la cosa più ingiusta che ti può capitare è quella di perdere una persona cara, se poi è tua mamma o tuo padre, tuo figlio come tua moglie o la tua compagna, il dolore è terrificante.
Nella lunga carcerazione mi è successo di perdere mio padre, un uomo che nonostante tutto mi è sempre stato vicino, mi ha sempre difeso con tutti. E mi sono sempre sentito in colpa per questo. Un breve racconto per descrivere mio padre, un lavoratore, una persona buona che nella vita si è sempre sacrificato per noi figli; quando è andato in pensione, mi aiutava nella gestione del negozio di giocattoli, era molto bravo con i clienti, e tutti gli volevano bene, lo chiamavano sor Giovanni. I bambini del quartiere quando passavano davanti al negozio impazzivano, e lui anche se non aveva il giocattolo richiesto, mi scriveva il bigliettino ed io ero sempre pronto per accontentare i clienti. Poi quando mi accadde di andare in carcere, lui in un primo momento aveva avuto un attimo di smarrimento, poi pian piano ha accettato la situazione, anche perché io gli avevo spiegato che avevo tutte le colpe di quello che stava succedendo. Ad ogni trasferimento era sempre il primo ad arrivare, bastava che gli inviassi il telegramma dicendo dove stavo, lui chiamava un mio fratello e si faceva accompagnare, con mia madre sempre al suo fianco.
A lui piaceva molto cucinare, anzi con le sue sorelle, le mie zie, gestivano un ristorante a Roma negli anni 60, poi prese il posto fisso e lasciò l’attività. Le sue origini marchigiane lo portavano spesso a fare le buonissime olive ascolane, era veramente bravo, riusciva a capare centinaia di olive senza mai romperne una. Entrò a lavorare alla Stefer, azienda di autotrasporti nella città di Roma, successivamente Acotral ed oggi Cotral, arrivò fino a diventare capo deposito della stazione Capannelle, davanti all’ippodromo di Roma, non prese mai la patente, a noi piaceva andarlo a prendere a lavoro, una persona umile che con i figli ha sempre avuto un rapporto bello. Lui mi ha trasmesso la passione per la squadra del cuore, la Lazio, quante volte siamo andati allo stadio insieme, quando le famiglie potevano godersi la domenica sugli spalti.
Questo è uno dei tanti ricordi che ho di lui, ma non posso dimenticare quando mi è giunta la notizia che non stava bene, un giorno venne a colloquio mio fratello più grande: mi disse che papà non stava bene, che forse bisognava ricoverarlo per accertamenti, ma vedendo i suoi occhi mi accorsi subito che mi nascondeva qualcosa. Gli chiesi quale fosse il problema di papà: sì soffriva di cuore, da giovane aveva avuto diversi infarti, ma si era sempre ripreso alla grande, i suoi 5 figli sempre vicini nei momenti difficili, erano riusciti a non farlo sentire come un malato, ma ultimamente soffriva di diabete. Insomma alla fine mio fratello mi dice che forse a papà dovranno amputare delle dita del piede, perché stavano andando in cancrena.
Presi la notizia restando nel mio dolore, decisi di scrivere al mio magistrato, dicendogli che in questo stato avrei rischiato di non vedere più mio padre. Per mia fortuna avevo in quel periodo un magistrato molto illuminato, quando ricevetti tutta la documentazione dell’ospedale gliela inviai e a sua volta la inviò alla sua cancelleria, capì subito che mio padre non avrebbe avuto molto tempo di vita. Io in carcere vivevo ogni giorno, ogni istante con un dolore profondo, non potevo far nulla per mio padre, neppure stargli vicino. La mia pena era ancora troppo lunga, non mi permetteva di usufruire dei permessi premio, l’unico strumento era il GMF, che si concede solo per gravi motivi di salute di un familiare. Il magistrato me ne concesse 10, sempre senza scorta: dieci ore di permesso per stare con mio padre in clinica, una sola volta il mio magistrato, quello di turno me lo concesse con la scorta, perché non mi conosceva. E andai con la scorta in borghese, devo dire che sono stati molto professionali. La malattia avanzava, non fu necessario fare l’intervento, nel mese di aprile del 2006 mio padre chiuse gli occhi e ci lasciò.
Ero preparato a questo, avevo preventivato la morte, ma come ogni figlio speravo sempre che arrivasse più tardi possibile, oppure nel miracolo. Così un giorno, erano le dodici e trenta, ero in stanza che stavo scrivendo una delle mille lettere che ho scritto. E dallo spioncino vedo la mia educatrice: strano di solito venivo chiamato e dovevo scendere nell’ufficio in sezione. Gli domando il perché di quella visita, lei mi risponde che mio padre è deceduto, mio fratello aveva chiamato per dargli questa notizia. Io rimasi seduto, non riuscivo a parlare, mi ricordo solo che lei mi chiese se volessi dei tranquillanti, la mia risposta è stata questa… “Dott.ssa voglio sentire il dolore per mio padre”.
Devo dire che la mia educatrice con il magistrato sono stati molto efficienti, sono riuscito a vedere mio padre prima che chiudessero la bara, e sono andato anche al cimitero in Umbria. Ma molti compagni di sventura non hanno avuto il mio stesso trattamento. Non voglio indagare il motivo, ma il dolore credo sia stato lo stesso: non so come mi sarei comportato se non avessi potuto vedere mio padre, se non avessi avuto la possibilità di andare al cimitero, di presenziare alla funzione religiosa, perché così sono riuscito ad attutire il dolore. Il dolore è lo stesso per tutti, ma per le persone detenute è qualcosa che tocca profondamente il cuore e i sentimenti. Non vorrei che la perdita di una persona cara, fosse diversa per alcuni, perché il dolore immenso è uguale per tutti.
Foto di apertura libera da Pixabay