Nelle puntate precedenti avevamo analizzato le prospettive per le elezioni del giugno 2024 delle due principali famiglie politiche europee (popolari e socialisti), condizionate in entrambi i casi dalle scelte degli alleati con cui coalizzarsi e dell’obiettivo istituzionale da prefiggersi per il futuro dell’Europa.
Contemporaneamente, Barbara Roffi aveva intervistato il verde Daniel Cohn Bendit, che scommette sulla riconferma dell’attuale Presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen. Equilibri complessi e delicati, nei quali è facile prevedere che il “centro” liberal democratico continuerà a giocare un ruolo chiave, anche per il pacchetto di voti che potrà acquisire ma forse soprattutto per la garanzia “europeista” (e sovente apertamente federalista) che continuerà a concedere a una convergenza, più istituzionale che ideologica.
Sono riconducibili a questa famiglia politica sette Capi di Stato o di Governo (Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Bulgaria, Slovenia ed Estonia), sei Commissari Europei (Transizione Digitale, Valori e Trasparenza, Mercato Interno, Giustizia, Gestione delle Crisi ed Energia) ed addirittura il Presidente del Consiglio Europeo.
Su Charles Michel, meglio sorvolare. Ci ricordiamo tutti la misogina intesa con Erdogan per negare uno strapuntino a Ursula Von der Leyen e in ogni caso riteniamo che il suo incarico andrebbe abolito, cumulandolo con quello di Presidente della Commissione Europea. Poi ci sono le vicissitudini interne di molti partiti della famiglia liberale, dalle tensioni che attraversano la Francia di Macron alla caduta del Governo Rutte in Olanda, ai litigi del Terzo Polo in Italia, alla rigidità dei liberali tedeschi rispetto alla riforma del Patto di Stabilità. Comunque, qualcuno potrebbe commentare: “Beati monocoli in terra caecorum”!
Le sigle cambiano (prima ALDE – Partito dell’Alleanza dei Liberali e dei Democratici per l’Europa, poi ELDR – Partito Europeo dei Liberali, Democratici e Riformatori, mentre ora, insieme con il PDE – Partito Democratico Europeo e con i seguaci di Macron – Republique en Marche, sotto il nome di Renew Europe) ma la funzione di ago della bilancia tra destra e sinistra europeiste rimane la prerogativa del gruppo liberale.
Se ne è avuta conferma nel voto al Parlamento Europeo del 12 luglio sulla legge sul ripristino della natura, che ha visto i liberali di Renew Europe impegnati a far saltare la manovra del capo gruppo del PPE, Manfred Weber, di rigettare il disegno di legge, proposto dalla Commissione Europea e accettato a maggioranza dal Consiglio Europeo. Il Parlamento Europeo ha approvato il disegno di legge con 336 voti favorevoli, 300 contrari e 13 astenuti. Sono stati cruciali una ventina di europarlamentari del PPE che si sono dissociati dall’indicazione del gruppo ma forse altrettanto importante è stata l’indisponibilità di Renew, pur non sempre entusiasta (a partire da Macron) di molte delle clausole del nuovo pacchetto legislativo, ad avventurarsi nell’esperimento di una nuova maggioranza alternativa a quella che ha sostenuto Ursula Von Der Leyen, con le destre a rimpiazzare socialisti e verdi.
È un segnale quanto mai importante in vista della prossima campagna elettorale europea, perché se, da un lato, dimostra quanto saranno centrali ed emotivamente carichi i temi del clima e dell’ambiente, dall’altro fa intuire quanto rimangano forti le resistenze nell’europeismo tradizionale a sposare ulteriori involuzioni di tipo confederale care ai nuovi sovranisti.
Molto significativo il commento del presidente di Renew Europe Stéphane Séjourné a proposito dell’incauta manovra di Weber: “Possiamo smettere di giocare ora e lavorare di nuovo insieme per l’interesse generale. Non commettete errori: la legge sul ripristino della natura è stata approvata perché Renew Europe ha proposto un testo che va bene per una maggioranza che comprende diverse delegazioni del PPE”. È la chiara conferma della disponibilità a lavorare per una maggioranza Ursula bis dopo le elezioni del 2024.
Il voto del 12 luglio non è comunque la fine di questa storia, solo un passaggio significativo di un percorso quanto mai complesso, con future interlocuzioni trilaterali tra Parlamento, Commissione e Consiglio Europeo per arrivare alla formulazione definitiva della legislazione europea in materia. Forse questa volta il negoziato non sarà sempre e solo a porte chiuse (“Brussels speaks to Brussels”) ma vedrà anche toni accesi nelle piazze e nei mercati, con Greta Thumberg e i “Fridays for Future” contrapposti alla Vandea dei vari “partiti contadini”.
Torna allora d’attualità il tema della Conferenza sul Futuro dell’Europa e dei suoi seguiti istituzionali. Originariamente proposta da Macron nel 2019, con l’ambizione di vederla conclusa in tempo per la campagna per la rielezione all’Eliseo nel 2022, la Conferenza, che avrebbe dovuto segnare il rilancio del progetto europeista dopo le vicende della Brexit, non ebbe sin dall’inizio vita facile, tanto forti erano le resistenze all’attribuzione della co-presidenza che spettava al Parlamento Europeo al liberale fiammingo Guy Verhofstadt, ritenuto “troppo federalista” dallo “zoccolo duro” di coloro che osteggiavano qualsiasi modifica dei Trattati in vigore.
L’esercizio di democrazia partecipativa che doveva animare la Conferenza non è stato poi all’altezza delle aspettative. Ma qualcosa ha prodotto, aprendo brecce nel Parlamento Europeo, dove, con l’appoggio della maggioranza Ursula, si sono poste le premesse per una presa in carico delle domande di riforma provenienti dalla società civile europea e magari per un ulteriore tentativo di attribuzione di funzioni costituenti ai legittimi rappresentanti del “demos europeo” (verso un nuovo Progetto di Trattato sull’Unione Europea, come quello patrocinato da Altiero Spinelli nel 1984?).
C’è ancora Verhofstadt al centro di questo tentativo, quale coordinatore della relazione che dovrà essere presentata alla Plenaria del Parlamento Europeo sui seguiti della Conferenza sul Futuro dell’Europa, ivi compresa la questione altamente controversa dell’eventuale revisione dei Trattati. Certamente, dopo il voto del 12 luglio e gli strascichi polemici che avrà, la faccenda si fa ancora più complicata e sarà più difficile archiviarla con qualche compromesso procedurale al ribasso. Per evitare questo pericolo, le avanguardie europeiste (a partire dal Presidente del Movimento Europeo Italia, Pier Virgilio Dastoli) hanno già lanciato la richiesta di un ampio dibattito partecipativo prima della presentazione in aula del Rapporto Verhofstadt.
Nel nostro piccolo, appoggiamo convintamente questa richiesta. Occorre che l’elettorato europeo maturi serenamente il proprio orientamento, ascoltando le voci di ambientalisti e di sovranisti, dei fautori ambiziosi degli Stati Uniti d’Europa e dei sostenitori di un sistema confederale al ribasso; ma soprattutto facendo conoscere le proprie priorità e le proprie condizioni. È in gioco il nostro futuro!
E allora, per giocare al meglio questa carta così impegnativa, vale forse la pena meditare sull’appello lanciato nell’ultima conferenza tenuta a Cambridge (Massachussets) da Mario Draghi, l’uomo che salvò l’euro “whatever it takes”.
Nel suo discorso troviamo infatti un solido inquadramento dottrinale, dal punto di vista economico e finanziario, per dar corpo a quella svolta federalista e partecipativa, sulla quale sta da tempo lavorando Guy Verhofstadt e, speriamo, la famiglia politica liberale tutta. Va considerata molto seriamente l’esortazione di Draghi agli europei a “procedere con un vero processo politico, in cui l’obiettivo finale sia chiaro sin dall’inizio e condiviso dagli elettori attraverso una riforma dei Trattati”. Oggi, dopo le crisi e le sfide di questi anni, è maturata la consapevolezza del “numero crescente di obiettivi comuni e della necessità di finanziarli a livello europeo, cosa che implica una diversa forma di rappresentanza e di struttura decisionale centrale”.
“In questa congiuntura storica”, ammonisce Draghi, “non possiamo rimanere fermi o – come la bicicletta di Jean Monnet – cadremo. Le strategie che hanno assicurato la nostra prosperità e la nostra sicurezza nel passato – l’affidarsi agli Stati Uniti per la nostra sicurezza, alla Cina per l’export e alla Russia per l’energia – oggi sono diventati insufficienti, incerti o inaccettabili. La sfida del cambiamento climatico e della politica migratoria semplicemente accrescono l’urgenza di rafforzare la capacità di agire dell’Europa”.
Draghi sostiene che per l’Europa si pongono due strade: continuare con soluzioni “tecnocratiche” che permettano poi ai governanti nazionali di andare avanti a tentoni oppure riprendere quel cammino virtuoso verso una vera Costituzione Europea, che fu ahimè interrotto un paio di decenni fa, ma che ora potrebbe forse essere accettato dagli europei, perché il solo in grado di garantire alla nostra Unione la capacità di governo imposta dalla taglia delle sfide che abbiamo di fronte. Abbiamo al riguardo un’opportunità: decidere di rendere permanenti i meccanismi straordinari di finanziamento comune adottati con lo EU Next Generation, adeguando conseguentemente il quadro fiscale europeo e su queste basi costruire l’Europa del futuro.
“Il nostro futuro è interamente nelle nostre mani – ci ricorda Mario Draghi – e nella nostra unità”.
Speriamo che questo appello influenzi il dibattito politico europeo in vista delle elezioni del giugno 2024, partendo magari proprio da coloro che si ritengono “l’ago della bilancia” di questo delicato processo evolutivo.