Romana di nascita ha una lunga esperienza nel campo della cooperazione internazionale. Ha iniziato come giovane infermiera volontaria per la Croce Rossa Italiana, prima in Italia come giovane volontaria poi come delegata all’estero in India, Mauritania, in Mozambico nello Yemen in Afghanistan. È esperta in programmi a favore di donne e categorie svantaggiate. Per Einaudi ha pubblicato nel 2011 “Involontaria” un libro sulla sua esperienza sia come donna che come cooperante.

Dal 2012 è presidente dell’associazione NOVE Caring humans fondata assieme ad altre colleghe. Nove ha cominciato ad operare come nel 2013 in quella terra martoriata che è l’Afghanistan, e non ha mai smesso, nemmeno quando i talebani hanno ripreso il potere nell’agosto del 2021.

La prima domanda è personale.

Sei partita come infermiera volontaria a 28 anni, venivi da una situazione privilegiata, una giovane donna in un ambiente benestante, ciononostante hai intrapreso una carriera a favore di chi è più svantaggiato.

Nel libro racconti la tua esperienza di madre che lavora lontano da casa, rappresentante della Croce Rossa in luoghi dove spesso ti ritrovi donna in un mondo a misura di uomini. Oggi come vedi Susanna Fioretti dopo questi anni e questa esperienza?

“Campo Rom a Roma. Gipsy.” by Zingaro. I am a gipsy too. Licenza CC BY 2.0.

Posso dire che sono una persona molto fortunata, che ha avuto molte opzioni dalla vita. Sono nata in un ambiente agiato e il primo contatto con realtà altre è stato proprio a Roma, in un campo di nomadi e baraccati alla periferia di Roma. Questo contatto mi ha dato una prima misura di quanto fosse facile la vita che avevo vissuto fino ad allora. Ero lì come infermiera, è stata un’esperienza che mi ha insegnato moltissimo e mi è stata poi utile nel resto della mia vita perché ho visto realtà che non erano poi tanto diverse da quelle che ho sperimentato e trovato altrove. Per esempio, per circa 300 persone c’era una sola fossa biologica come bagno e l’acqua bisognava prenderla all’unica fontana.

Per quanto riguarda la cooperazione il mio inizio è stato piuttosto “involontario”: in un momento della mia vita in cui mi sentivo triste, depressa, demotivata, una mia collega mi ha detto: “Invece di piangere su te stessa vieni in Mauritania che ti faccio conoscere delle realtà su cui vale davvero la pena piangere”. È cominciato in questo modo il mio percorso nella cooperazione, che tuttora continua con NOVE Onlus.

Spesso i progetti della cooperazione internazionale che vengono elaborati a tavolino in occidente, una volta sul luogo risultano inefficaci o inapplicabili o incontrano la poca cooperazione degli abitanti o tutte e tre le cose messe assieme; per non parlare poi di come gli aiuti spesso siano alla base dello svilupparsi della corruzione dei funzionari governativi. Qual è la tua esperienza al riguardo?

È un discorso molto complesso, che ha portato anche a un’evoluzione nell’ambito della cooperazione internazionale: il passare da un approccio diciamo un po’ colonialista a quello di budget support, cioè di sostenere i governi locali.

Donne afgane al lavoro – foto di NATO Training Mission-Afghanistan – licenza CC BY-SA 2.0.

Quello che io posso dire della mia esperienza particolare – e ancora una volta sono stata fortunata – è che ho avuto la libertà di decidere insieme alle persone locali. Un esempio pratico: quando abbiamo deciso di aprire un centro di formazione professionale femminile a Kabul, ho potuto consultarmi con lo staff afgano che ovviamente ne sapeva molto più di me dell’Afghanistan e mi ha dato dei consigli molto utili. Sulla base di questi consigli abbiamo agito: convocato il Consiglio degli Anziani, signori barbuti che decidevano molto della vita del quartiere, abbiamo spiegato che volevamo fare e ci hanno risposto: “Questa cosa è inutile perché formare le donne è uno spreco, di tempo e di denaro”. Allora ho concluso dicendo: “Ci rimettiamo alla vostra volontà. Purtroppo abbiamo fondi solo per le donne, a voi la decisione”. Senza il loro assenso non si poteva fare, era troppo pericoloso, avremmo creato delle situazioni di rischio sia per le beneficiarie sia per gli insegnanti. Dopo qualche giorno mi hanno richiamata per dirmi “Va bene, lo potete fare per le donne, però a queste condizioni…” mettendo tutta una serie di paletti.

Naturalmente la situazione è molto più complessa di questo piccolo esempio con cui ho cercato di spiegare che, secondo me, i progetti con più possibilità di riuscita sono quelli condivisi con le realtà locali sia a livello di autorità, perché devono avere l’approvazione o quantomeno una copertura formale, sia con chi entra a farne parte.

Quando poi abbiamo convocato le donne del quartiere, in gran parte analfabete, abbiamo chiesto se volevano e potevano fare qualcosa di diverso da quello che all’epoca in Afghanistan si proponeva alle donne povere e senza istruzione, ossia corsi di piccolo artigianato, sartoria, parrucchiera e estetista. Pensavamo infatti che quel tipo di donne fossero in grado di svolgere anche attività diverse e abbiamo proposto cose come assemblaggio di apparecchi fotovoltaici, riparazione di cellulari, gioielleria e taglio delle gemme, mestiere allora riservato agli uomini. Abbiamo ascoltato le loro obiezioni e paure, su quella base abbiamo formulato il progetto, con determinati criteri. E ha funzionato.

Tempo dopo una di queste donne, la migliore del corso di taglio gemme, venne a dirci piangendo: “Mio marito sarà trasferito a Mazar, è un militare e devo seguirlo, non posso più lavorare con voi”. Radunai lo staff e gli insegnanti e chiesi a loro cosa fare. “Prova a proporle uno stipendio come trainer”, mi risposero. “Ormai è diventata brava e può insegnare alle nuove allieve”. Le offrimmo uno stipendio di 150 dollari e il marito, tanto stupito quanto contento che lei fosse in grado di portare soldi a casa, riuscì a evitare il trasferimento. Così lei poté continuare a frequentare il centro e, oltre a diventare la prima trainer donna di taglio gemme, aprì anche una piccola impresa. La famiglia, che all’inizio criticava le sue attività perché erano fuori dalle consuetudini femminili, cominciò ad apprezzare non solo i guadagni ma anche il prestigio che derivava dalle sue capacità. Insomma un cambio di mentalità spontaneo, non imposto dall’esterno.

Riassumendo in poche parole, una delle chiavi della riuscita dei progetti a mio avviso è inserirsi nella cultura locale, tenere conto di leggi, consuetudini e aspettative della società locale, e utilizzarli come strumenti. Insomma essere sensibili e rispettosi dell’ambiente culturale in cui ci si inserisce, anche se nel tempo di un progetto non è possibile conoscerlo a fondo.

Afghanistan (Agosto 2021) Soldati americani forniscono la sicurezza durante l’evacuazione dell’aeroporto internazionale Hamid Karzai foto del Sgt. Isaiah Campbell – licenza CC BY-SA 4.0.

NOVEOnlus è riuscita a rimanere nel paese anche dopo la presa dei talebani del 15 agosto del 2021, immagino che i progetti che avevate prima attivi per le donne e per i disabili non sia stato più possibile portarli avanti, che cosa riuscite a fare?

La polizia religiosa ha occupato il nostro centro di formazione e sequestrato tutto il nostro equipaggiamento. Stiamo ancora trattando per riaverlo e donarlo agli orfanatrofi, invece che alla polizia. Abbiamo dovuto chiudere alcuni progetti, come il Pink Shuttle, il primo e unico servizio di trasporto guidato da donne per sole donne; e anche i corsi di guida. Al momento abbiamo dei corsi femminili di cui non posso dare dettagli per motivi diciamo di sicurezza.

Soprattutto abbiamo potenziato i nostri progetti di emergenza, molto ridotti prima del 2021. Perché adesso l’Afghanistan oltre a essere il peggior paese al mondo per una donna secondo le Nazioni Unite, l’unico paese al mondo che vieta l’educazione femminile dopo gli undici anni, è in preda a una delle più grandi crisi umanitarie mondiali, quindi c’è moltissima povertà, fame, disperazione.

Grazie al sostegno del Trust “Nel nome della Donna”, del Comitato Restituzioni del Movimento 5 Stelle e altri donatori, con il progetto Dignity diamo mensilmente il necessario per sopravvivere (fondi per il cibo, per pagare l’affitto e medicine) a 100 famiglie con donne capofamiglia. Che vuol dire circa 600 persone, considerando che una famiglia afghana in genere ha 6.5 persone. A Kabul e in una provincia abbiamo assistito molte altre famiglie con distribuzioni una tantum di cibo, cash e legna per riscaldarsi d’inverno.

Stiamo cercando di avviare un programma ufficiale di educazione femminile online, che non è così semplice. Sembra una bella soluzione sulla carta ma in Afghanistan internet non c’è nelle zone periferiche e non funziona bene nemmeno in città; spesso non c’è luce e bisogna fornire alle ragazze computer o tablet, pagare i costi di connessione. Le spese e le sfide di questo progetto sono quindi tante ma speriamo di farcela.

Per le persone disabili continuiamo il progetto ‘La forza dello Sport’ svolto in collaborazione con il Comitato Internazionale di Croce Rossa. Lo sport ha un ruolo essenziale nella inclusione sociale delle persone disabili, in un paese che, in guerra da oltre 40 anni, a loro dà compassione ma non diritti e opportunità. Sosteniamo la squadra nazionale di pallacanestro in carrozzina, solo quella maschile perché a quella femminile non è più consentito giocare. Paghiamo ad esempio le spese di trasferte all’estero, un sistema per permettere agli atleti disabili di entrare in contatto con il resto del mondo, gareggiare a livello internazionale e tornare nel Paese con un bagaglio da diffondere.

Copriamo anche da un anno, grazie ai fondi di Only the Brave Foundation, le spese di cibo, abiti, medicine, parte dello staff ed altro dell’orfanotrofio pubblico della provincia di Kapisa, che ospita 51 bambini, tutti maschi. Ci hanno chiesto aiuto e non abbiamo discriminato sulla base del sesso, anche se NOVE aiuta principalmente le donne.

Quindi la vostra attività in Afghanistan si è modificata significativamente, da progetti di sviluppo e emancipazione a più che altro progetti di sostegno per l’emergenza umanitaria?

Si, e aggiungo un’ultima cosa. Lavorare in Afghanistan è sempre più difficile. Abbiamo problemi a mandare fondi, spesso vengono bloccati e dobbiamo ricorrere a sistemi alternativi. Il cerchio si sta stringendo sempre di più per le donne e chi cerca di aiutarle. Oltre a cancellarle dalla scena pubblica, destituirle da ogni carica pubblica, chiudere licei e università femminili, i talebani hanno vietato alle donne di muoversi liberamente da sole, fare sport o una passeggiata nel parco, lavorare per le ong internazionali. Ieri abbiamo saputo che hanno dato due settimane di tempo per chiudere tutti i parrucchieri e beauty center, una grande fetta delle poche attività femminili che erano ancora consentite. Questo ridurrà in miseria un numero enorme di donne, che si aggiungono alle tante che già hanno perso il lavoro in questi due anni e muoiono di fame e disperazione, chiuse in casa.

 

“Woman Pride, parata dell’orgoglio femminile” è un progetto di Donna Reporter, venti interviste a donne che con il loro lavoro incrinano il muro di silenzio che circonda la condizione femminile, ingiustizia sociale, criminalità organizzata, conflitti dimenticati. La video-intervista completa (32’) è visibile qui: Donna Reporter FB

Per saperne di più sul programma visita il blog: https://womanpride2023.blogspot.com/