I giorni subito dopo il voto sono quelli più difficili. Finché sei in campagna elettorale tutto sembra possibile, e ogni singolo candidato è immerso nella frenesia di incontri e conferenze. Nel giorno del voto la finestra delle possibilità è ancora aperta e anche se cala il silenzio elettorale, c’è una serena fiducia nel risultato.

Infatti, nelle ore passate al seggio, a salutare i conoscenti e a far compagnia ai carabinieri e agli scrutatori, riflettevo su come sono finita lì, in quell’Istituto a fare rappresentante di lista per la terza volta. Dopo le due tronate elettorali del 2022, in aprile del 2024 mi sono ritrovata di nuovo nel ruolo di candidata: stavolta, per il Parlamento Europeo.

Era il destino o il caso? Abito in Italia dal 1995, e fin dai primi anni da immigrata mi interessavo alla vita politica andando a manifestare. Dieci anni dopo, una volta ottenuta la cittadinanza, non ho perso l’occasione per votare, tanto da aver ormai esaurita la prima tessera elettorale. Non mi era mai venuto in mente di tesserarmi: ero troppo immersa nello studio, poi nel lavoro. Avevo poca fiducia nei partiti perché era ancora forte il ricordo dell’infanzia in Unione Sovietica con un partito unico al potere.

In primavera del 2022 invece, ho scelto di non restare più in disparte, e mi sono iscritta a Più Europa. Motivo? Erano apertamente schierati con l’Ucraina nella sua battaglia per la libertà. Rispetto alle posizioni ambigue di altri partiti, o apertamente pro-russi, o vagamente disfattisti, la loro posizione era inequivocabile. Così, pur essendo provata dall’enorme carico emotivo ed organizzativo dei primi mesi dell’invasione su larga scala ho accettato con l’entusiasmo di partecipare prima alle elezioni municipali e poi a quelle politiche. Speravamo all’epoca di vedere il risveglio delle coscienze sulla questione ucraina, e l’arrivo imminente della nostra vittoria.

Eppure, sono passati due anni. Abbiamo dovuto rassegnarci alla realtà dei fatti: la guerra è ancora in pieno corso e la necessità di ricordarla è attuale ora come allora. Questa guerra è ibrida: è ormai palese che l’influenza delle dittature si propaga e va contrastata, sia nel campo militare che quello ideologico.

La lista Stati Uniti d’Europa, formata soprattutto da più Europa e Italia Viva, di nuovo, era la scelta perfetta per me. Al centro del loro progetto c’era era il rafforzamento della Comunità Europea, la cancellazione del veto che renderebbe più agevole la presa delle decisioni strategiche, infine, la creazione della difesa comune e dell’esercito europeo. Se fossero implementate, queste innovazioni avrebbero salvato l’Europa dalla deriva autoritaria e di conseguenza avrebbero protetto anche l’Ucraina, lanciando un chiaro segnale al resto del mondo: la democrazia è tuttora il sistema sociale migliore rispetto alle società chiuse e gerarchiche.

Nella campagna elettorale non ero da sola: oltre ai compagni del partito, con me nella lista dei candidati nella circoscrizione Nord-Est c’era Kateryna Shmorhai, volontaria di Ravenna. Ci conoscevamo già perché nel mondo degli attivisti ucraini funziona così: di persona o virtualmente, ci si conosce tutti.

Abbiamo fatto una campagna elettorale in piena autonomia, partecipando a numerosi eventi, volantinando ai tavoli e soprattutto parlando con diversi gruppi di sostenitori. Viaggiando, ho incontrato i radicali di Venezia, i socialisti di Bolzano, i volontari ucraini a Bologna, i Federalisti Europei a Bassano del Grappa e i Mazziniani a Verona.

Uno degli incontri più significativi per me è accaduto però non lontano da casa mia, in un bar veronese, dove sono entrata per lasciare qualche volantino. Non so se era prima la barista a notare notato la mia maglietta o io a notare la bandiera giallo-azzurra dietro il bancone: fatto sta che la proprietaria mi ha salutato in ucraino. Così ho scoperto che sia lei che suo marito erano ucraini, ma di due gruppi sociali diversi. Lei è arrivata in cerca di lavoro negli anni Novanta; lui invece appartiene a una di quelle famiglie che sono andate via dall’Ucraina ritirandosi con gli eserciti d’occupazione. Molti di loro sono stati poi internati in Inghilterra e da lì sono andati a vivere un po’ dappertutto. La diaspora antica e minoritaria si mescolava in quel bar con la diaspora lavorativa di massa degli ultimi decenni. Da anni cercavano di spiegare agli avventori come stanno davvero le cose, ed erano anche un po’ stanchi di battagliare isolati. Scoprire che ci sono candidate italo-ucraine in questa tornata elettorale era per loro una notizia incoraggiante.

Ho fatto anche una cosa un po’ all’antica: quella di inviare le lettere, scritte in ucraino e italiano e firmate a mano, a quegli elettori veronesi che sono nati in Ucraina ma hanno acquisito la cittadinanza. Così io e Kateryna, aiutate dagli amici, ci siamo date da fare con massimo impegno, raccogliendo più preferenze di quanto si potesse immaginare in partenza: 1852 e 880 rispettivamente. Per me era un piacere notare che nella città di Verona, rispetto alle elezioni municipali, il numero delle preferenze a me concesse dagli elettori è quadruplicato: vuol dire che in questi anni non sono rimasta mano nella mano.

Purtroppo, ciò non è bastato: pur raggiungendo la soglia di sbarramento in alcune zone (ad esempio, 4% in Friuli, a Benevento ha addirittura preso 24,36% dei voti, classificandosi prima), a livello nazionale SUE ha raccolto solo 3,7%, per un totale di circa 778.800 voti: le cifre non sono ancora definitive perché a 5 giorni dal voto non abbiamo ancora finito gli scrutini in 78 sezioni della circoscrizione centrale.

Eppure, pur mancando ancora qualche seggio, la situazione è chiara: nessun partito dell’aria liberale e radicale italiana andrà ad unirsi ai compagni di Renew Europe. Queste sono le regole: anche se sommando i voti di Stati Uniti d’Europa e Azione arriviamo alla cifra di ben 1.654.487 persone, loro non avranno un proprio rappresentante al parlamento europeo. Il calcolo errato di chi ha scelto la strada della separazione ha colpito di rimbalzo anche chi era aperto al dialogo.

Così, il giorno dopo le elezioni arriva il momento di amara analisi dei risultati. Abbiamo corso questa maratona con grande slancio, ma ci siamo fermati a pochi passi dal traguardo sperato. L’obiettivo già di per sé modesto di superare la soglia di sbarramento si è sbriciolato per colpa di molti e a danno di tutti. L’ignavia degli astensionisti, l’ambizione individualista di certi leader, la mancanza di cooperazione, il campanilismo di chi bada solo al proprio orticello e non ci vede nulla di male, – tutto ciò ha concorso a erodere il risultato finale.

Nel week-end di voto il tempo a Verona era nuvoloso, c’erano delle piogge leggere ma mai così forti da impedire a qualcuno di uscire. La scusa del “fa bel tempo, andiamo sul lago” non reggeva. L’astensione, a prescindere dalle condizioni atmosferiche, dovuta all’indifferenza dei cittadini verso il destino collettivo, all’impossibilità di rintracciare cause e conseguenze, ha superato di misura i numeri delle elezioni politiche del 2022. Nel 2024 abbiamo avuto sei milioni dei votanti in meno, nonostante la concomitanza in alcuni seggi di elezioni amministrative, che di solito fanno da traino. Così le elezioni di livello più alto possibile sono state ridotte ad una sorta di mega-sondaggio “mid-term”, sfruttato dai partiti al governo e all’opposizione per mostrare i muscoli e aggiornare o meno il consenso, come dimostra il terremoto politico in Francia.

Ci sono anche fattori spiccioli che rovinano il voto. Non parlo ora di persone bizzarre che arrivano fino al seggio, tirano fuori il documento, entrano nella cabina e poi scrivono sula scheda “Evviva Putin!” o sbarrano ogni singolo simbolo con diligenza degna di migliore applicazione. A dare il colpo di grazia concorre a volte la banale disattenzione di chi arriva ben preparato e motivato, ma, preso dall’emozione, storpia il cognome del suo candidato preferito, oppure mette la preferenza a chi è sì a capo del partito ma non è presente nella lista, dimenticando di barrare sul simbolo e in tal modo inficiando il voto.

La dispersione dei votanti ha colpito tutte le forze politiche, tranne il Partito Democratico. Se confrontiamo le cifre delle elezioni attuali coi voti guadagnati o persi rispetto alle politiche del 2022, noteremo che gli apparenti vincitori hanno perso per strada una larga fetta di elettori, mentre i secondi classificati hanno guadagnato consensi. Per gli europeisti italiani, e soprattutto per chi fra loro sostiene attivamente la causa ucraina, l’occasione di poter influire sui destini del continente sfuma, e si crea un governo in cui una larga fetta dei votanti lib-dem e radicali resta senza rappresentanza.

In fondo ha vinto chi, data la diffusa ignoranza dei meccanismi comunitari, ha deciso di basare la campagna sui temi locali, assecondando il senso civico sempre più sfumato della maggioranza dei cittadini. Hanno vinto quelli che hanno usato, a destra e a manca, l’espediente di inserire candidati che hanno già alte, anzi, altissime cariche dello stato, palesemente incompatibili con la poltrona europea. Con la premier che fa da capolista, la nuova vittoria dei Fratelli d’Italia era scontata, e l’aggiunta di giornalisti TV e scrittori di dubbia caratura morale ha fatto il resto.

Questa volta ad essere premiati sono stati i personaggi, e non progetti. Purtroppo, anche gli elettori liberal-democratici si orientano più per i nomi celebri che per manifesti. Molte volte durante il volantinaggio sentivo dire “C’è Renzi? Non vi voto!”, o vice versa “Renzi volentieri ma la Bonino no…”. Invano mi appellavo al fatto che entrambi i leader hanno in comune le idee, la visione: pochi erano interessati ad approfondire.

È forse una nostra colpa, se la lista Stati Uniti d’Europa ha preso sul serio il compito di creare una proposta elettorale veramente europea? Noi parlavamo dei passi concreti per far realizzare quel sogno dei padri fondatori dell’Europa Unita, basato a suo turno sul sogno antico di unione federale fra i paesi, che risale a Carlo Cattaneo. A differenza da altri partiti, abbiamo sognato in grande: più Europa, non meno! Stavolta non siamo stati ascoltati. Pazienza. Analizzeremo gli errori, ci organizzeremo meglio per la prossima volta. Per ora non ci resta altro che osservare: dove andrà a finire l’Europa? Fra cinque anni, avremo risolto egregiamente tutte le crisi attuali per dedicarsi alla vita pacifica, o le istituzioni ora così importanti non esisteranno più?

Spero che i tanti seggi che hanno conquistato le forze di centro-sinistra in parlamento europeo potranno bilanciare l’impatto della destra e mantenere alta l’attenzione verso i diritti civili. Dubito però che i neo-eletti avranno il coraggio di promuovere le riforme di cui UE ha bisogno e sostenere a spada tratta l’Ucraina. Se così dovesse essere, l’emergenza bellica andrà avanti, mietendo numerose vittime e logorando l’idea della centralità della giustizia nel mondo moderno. È questa prospettiva – e non tanto la sconfitta individuale – che rende tanto amari i giorni dopo il voto.