La celebre, dolce-amara canzone di Gaber potrebbe fare da sfondo a questo dopo-elezioni, un appuntamento che ha avuto risultati ampiamente previsti.
A nulla è servito il saggio richiamo al voto esercitato da più parti, l’astensione è risultata la stessa del 2019 a livello europeo e in Italia, con il 50% scarso, ha addirittura registrato un aumento. Il maggiore partito europeo, quello del non-voto, ha fatto nuovamente sentire la sua presenza.
Metà degli elettori continua a percepire l’Europa unita un’istituzione lontana dalle proprie aspettative e il voto incapace di incidere sulla costruzione di un continente a misura di cittadino. Sono d’accordo voci critiche sia a destra sia a sinistra (cfr. articolo del 7 giugno sul «Manifesto»: Non è un invito, ma l’astensione è legittima).
La non conoscenza dei meccanismi di funzionamento della UE è certamente un motivo, ma non è l’unico, considerando che questa “fuga dal voto” è abbastanza equamente ripartita nei Paesi dell’Unione, in quell’opinione pubblica che sembra collegare l’Europa ad alcuni fattori, come la burocrazia, la disoccupazione, la riduzione del potere d’acquisto, la perdita della propria identità culturale, l’aumento della criminalità e la questione migratoria.
Tuttavia abbiamo anche elementi positivi, come il rafforzamento del centro (PPE), che è sempre stato, fin dalla fondazione, un fattore di moderazione, anche se sul continente spira un vento assai poco temperato. Nel mezzo di un confronto tra due visioni di Europa che si approfondisce.
A sinistra la speranza era quella che l’attuale governance rimanesse immutata, magari rafforzata, a destra il voto è stato visto come un’opportunità per cambiare l’idea stessa di Europa. Apparentemente, nessun dei due obiettivi è stato raggiunto. Poco è cambiato, negli equilibri generali, se si esclude il rafforzamento del maggiore partito di governo in Italia e la débâcle elettorale di Macron e Scholz in Europa.
Paolo Rumiz, nel suo articolo La sinistra senza risposte («La Repubblica», 11 giugno 2024), afferma che la latitanza della sinistra sui grandi temi ideali e identitari (si, proprio così: identitari), appiattita sul politicamente corretto, ha lasciato spazio e iniziativa alla destra. Destra alla quale rivolge la riflessione finale che l’opzione sovranista rischia di diventare la portaparola di quegli stessi «poteri globali che poi, in presenza di un’Europa invertebrata, saranno i primi a fare a pezzi proprio le nazioni». Come se la sinistra fosse immune da tentazioni.
Ma ci pensa l’«Economist» a chiarire come si muovono i poteri globali, e lo spiega bene nell’articolo The three women who will shape Europe, ovvero, riassunto in breve, come l’ordine mondiale vorrebbe sfruttare la vittoria della destra.
Quei poteri sono già da tempo il convitato di pietra della nostra democrazia. Non hanno considerazione per ideali e schieramenti, infiltrano organismi internazionali, condizionano governi e scelte politiche con le armi della pressione economica (i vari rating che oggi sono più importanti degli Stati), controllano l’informazione, dettano l’agenda dei valori e addirittura la politica sanitaria.
Cercano un pubblico da sedurre, al punto tale da rendere difficile, se non impossibile, la loro identificazione. Un capitalismo neo-liberista e per nulla etico che non ha particolari preferenze politiche, ormai ininfluenti, se non quella di perpetuare il proprio dominio strategico ad ogni costo.
Il dramma odierno è quindi illudersi che il confronto sia ideologico tra destra e sinistra, non accorgendosi che l’obiettivo è un altro.
Questa è l’urgenza vera della democrazia, la sola utile alla costruzione europea: un equilibrio dei poteri che non confligga con il cammino intrapreso dai fondatori al termine del secondo conflitto mondiale, avvicinando con il linguaggio politico e con l’iniziativa dei governi un futuro promettente nella prospettiva della pace.
Immagine di apertura: Il Parlamento Europeo in sessione plenaria, 5 febbraio 2014, Wikimedia Commons