La monumentale opera Il tramonto dell’Occidente, scritta da Oswald Spengler e apparsa all’indomani della prima guerra mondiale, è stata recentemente oggetto di qualche celebrazione in occasione del suo centenario. Il suo titolo è rievocato da quello di vari successivi libri e libretti, pubblicati soprattutto negli ultimi anni.
Tra questi il saggio La deriva dell’Occidente, di Franco Cardini, con ben presenti gli attuali drammatici interrogativi. Ma con un finale che, a dispetto del titolo, vuole lasciare aperte speranze e qualche sogno. “Io credo nella Resurrezione dell’Europa, quia impossibile est”, conclude l’illustre storico fiorentino. E aggiunge: “Un’Europa che, come la Luce di Dio evocata nel Corano, non è né orientale né occidentale”.
Molto esplicita la recentissima presentazione di Mario Draghi del suo rapporto “Il futuro della competitività europea”. Una sfida esistenziale, una necessità di cambiamento con la drammatica alternativa di una lenta agonia dell’Europa.
Viene spesso invocata la necessità che Europa e Occidente, quest’ultimo ridotto ora a un settimo della popolazione mondiale, ritrovino valori forti, condivisi e credibili.
Agli albori del progetto europeo, tali forti valori erano ben presenti e individuati. Celebre l’affermazione, che risale al 1950, di Theodor Heuss, primo presidente della Repubblica Federale di Germania: “Sono tre i colli da cui ha avuto inizio l’Occidente: l’Acropoli di Atene, il Campidoglio di Roma e il Golgota. L’Occidente è spiritualmente fondato su di essi, e i tre colli devono costituire un unico riferimento”. Nella foto qui accanto Theodor Heuss è insieme al suo cancelliere Konrad Adenauer, uno dei padri fondatori dell’Europa.
Nonostante le vicende dei tre colli abbiano inizio più di 2000 anni fa, il loro riferimento sembra oggi essersi rapidamente indebolito. Forse qualche tentativo di costruire altro si sta facendo, e non sarebbe male se noi europei riuscissimo in qualche misura ad esserne attenti.
Mi riferisco ai viaggi di Papa Francesco. Solo all’estero 45 viaggi apostolici, nei suoi 12 anni di pontificato. L’ultimo, il più lungo e impegnativo, in Asia e in Oceania: Indonesia, Papua Nuova Guinea, Timor Est, Singapore. Dal 2 al 13 settembre scorsi, a 87 anni di età e con qualche problema di deambulazione.
In un articolo dell’anno scorso su questo sito avevo parlato di altri viaggi del Papa in località “remote” del mondo. Cercando di sottolineare come essi si inquadrino in una oggi quanto mai necessaria ed esplicita universalità della Chiesa di Roma. Nel dialogo con le altre religioni, e agli inizi di un nuovo tempo, che autorevolmente è stato chiamato del Pomeriggio del Cristianesimo.
Un esempio ormai non recente è l’inaugurazione dell’Anno Santo Straordinario 2016, nella Repubblica Centrafricana. Al centro del continente da dove proviene l’intero genere umano, dunque paese al centro del mondo.
In altro ambito, centrale per raccontare la storia degli ultimi tredicimila anni del genere umano è stata la Papua Nuova Guinea. Nel famoso saggio Armi, acciaio e malattie, dello scienziato e storico statunitense Jared Diamond. Scritto con la motivazione di dare delle risposte alle profonde domande rivolte all’autore da Yali, giovane politico della Nuova Guinea. Che voleva capire che cosa avesse reso possibile nella storia il dominio degli europei sugli altri continenti.
Le varie mete dell’ultimo viaggio apostolico del Papa sono quanto mai diversificate. Prima tappa l’Indonesia, il paese con il più grande numero di mussulmani, dunque luogo di elezione per continuare il dialogo con l’Islam. Con la sottoscrizione di un documento congiunto tra Francesco e il Grande Imam di Giacarta, inteso a dare risposte condivise e concrete a favore dell’ambiente e contro la disumanizzazione e la povertà. Anche con l’inaugurazione del tunnel dell’amicizia, collegamento sotterraneo tra la moschea e la cattedrale cattolica, che si affacciano sulla stessa piazza di Giacarta.
Il dialogo interreligioso e i cambiamenti climatici, in terre che particolarmente ne risentono, sono stati il filo conduttore dei 16 discorsi del Papa nelle varie tappe. Il secondo paese visitato è la Papua Nuova Guinea, lo stato più povero dell’Oceania, con realtà di sfruttamento da parte di multinazionali estere. Qui la visita alla terra di Vanimo, cui si riferisce l’immagine di copertina qui sopra. Ai margini di una rigogliosa e sterminata foresta tropicale. E il riconoscimento agli indigeni: “Voi siete esperti in bellezza, perché ne siete circondati! Vivete in una terra magnifica, in cui si resta a bocca aperta davanti allo spettacolo grandioso di una natura che esplode di vita.”
Meta successiva Timor Est, con la messa celebrata davanti a 600.000 fedeli. Quasi la metà dell’intero paese, che è “ai confini del mondo ma al centro del Vangelo”. Ultima tappa Singapore, con l’invito alle autorità civili di un impegno per un progresso inclusivo ed equilibrato.
Ci si può chiedere perché la lingua di Papa Francesco nei suoi viaggi sia l’italiano, anche in paesi dove la nostra lingua è pressoché sconosciuta. Francesco parla italiano in ogni paese del mondo dove non si parli lo spagnolo, sua lingua madre. La sola risposta che vedo è di coerenza logica. Il Papa è Vescovo di Roma e la scelta dell’italiano ne è conseguenza. Volendo ancora riferirsi ai tre colli fondanti dell’Occidente, si può concludere che almeno i due colli di Roma e di Gerusalemme sono ben presenti in spirito nei viaggi di Papa Francesco.
E che i suoi viaggi in paesi remoti non sono dettati dalla scelta di allontanarsi dal continente dove la Chiesa ha costruito le sue radici e la sua identità. Ma intendono al contrario indicare che il futuro dell’umanità, e dunque anche dell’Europa, può essere anche altro. Un po’ fuori da ciò che in Europa continuiamo ad avvertire più vicino, e di cui così tanto parliamo.
Magari potremmo anche noi sognare un’Europa che, per ripetere le parole sopra riportate dello storico Franco Cardini, “come la Luce di Dio evocata nel Corano, non è né orientale né occidentale”.
Immagine di copertina: Papa Francesco a Vanimo, Papua Nuova Guinea