Scrivendo nel 1954 Guglielmo Tagliacarne, grande innovatore negli studi di statistica e di economia applicata, affermava che la produttività è la grande speranza del secolo (scorso)… ma anche di quello attuale, se ben settanta anni dopo il Rapporto di Mario Draghi sul “Futuro della competitività europea” sostiene che la produttività dell’economia europea (e il suo sviluppo) è una delle grandi sfide nel confronto con gli Stati Uniti e con la Cina, affermando che la crescita della produttività è alla base della “sfida esistenziale” dell’Europa. Del resto, già il padre della moderna economia, Adamo Smith, aveva posto la crescita della produttività consentita dall’aumento della dimensione del mercato alla base dell’aumento della “ricchezza delle nazioni”.
La produttività è però un concetto sfuggente come ci dice l’economista Elhanan Helpman, uno di quelli che si è molto occupato dei fattori alla base della crescita economica. Affinché aumenti la produttività occorre innovare, facendo crescere il livello di dotazione di capitale fisico, immateriale e umano a disposizione delle imprese. In una società della conoscenza avanzata la produttività è sempre più legata al ruolo svolto dal capitale umano, ossia al complesso dei fattori collegati alla capacità, alle conoscenze e alle abilità delle persone, al punto che noti studiosi dell’impatto delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale sottolineano che il vero motore dello sviluppo è nella cosiddetta “capacità ricombinante,” ossia nel modo in cui l’intelligenza e la capacità delle persone si relaziona con quella delle nuove tecnologie, dando luogo a soluzioni inedite e in particolare facendo crescere la creatività complessiva. Solo così si genera quella che il Premio Nobel per l’Economia, Edmund Phelps ha definito una vera economia “fiorente”.
Indipendentemente da altri fattori c’è un aspetto che però che non entra tanto della discussione al riguardo, ossia il nesso tra andamento della produttività del capitale umano ed età delle persone. Un dibattito in corso da tempo è se l’invecchiamento incida sulla produttività del lavoro, un poco come per semplificare, incide sul rendimento del capitale fisico. La questione è centrale alla luce dell’invecchiamento della popolazione e del calo dei tassi di natalità di molti paesi europei. In questo senso la sfida della produttività si combina con quella della ripartizione per classi di età degli occupati e, come riportato in un recente studio dell’OCSE, si può individuare un andamento (quasi) “a campana” al riguardo, evidenziato nel grafico sotto riportato. Questo andamento decrescente è stato preso a base da quanti sostengono l’esistenza di una stagnazione secolare nei paesi a maggiore livello di sviluppo.
Il calo della produttività all’aumentare dell’anzianità come si vede non è però inevitabile, ma ci possono essere vari interventi che potrebbero tendere a prolungare la “fase attiva” della produttività rispetto alla progressione demografica. L’Europa invecchia e perde produttività rispetto agli USA e, malgrado l’incremento del tasso di partecipazione al lavoro stimato nei prossimi anni, questo incremento non basterà a compensare il calo della popolazione in età lavorativa, che nel 2070 è prevista in riduzione del 12%, ossia di circa 20 milioni di persone. Ma il nostro Paese si trova in una situazione ancora peggiore. Invecchiamo di più, siamo infatti il paese europeo con l’età mediana più alta pari a circa 49 anni, e abbiamo anche una minore crescita della produttività del lavoro (nel periodo 2014-2023 dello 0,5% in media annua, contro un valore UE dell’1,1%).
Già nel 2023 da noi il rapporto tra la fascia dei 24-34enni su quella dei 54-64enni è stato il più basso tra i principali paesi europei (Germania, Francia, Spagna) e rispetto alla media dell’Unione. Abbiamo sperimentato negli ultimi anni una forte crescita dell’occupazione, ma questo aumento è avvenuto in particolare nella fascia di età degli over cinquanta: il tasso di occupazione giovanile non è ancora tornato ai livelli del 2008, mentre l’occupazione tra i 50-64enni è cresciuta di 20 punti percentuali rispetto a quell’anno, il che ha contribuito a rendere ancora più anziana la composizione della nostra forza lavoro.
Di fatto si è invertita la tendenza che vedeva invece crescere l’occupazione, e comunque la nuova occupazione, nelle fasce più giovani. E così negli ultimi venti anni gli occupati tra i 25 e i 35 anni si sono ridotti da oltre 6 milioni a circa 4,2 milioni e secondo un recente rapporto del CNEL la popolazione nella fase di entrata in età adulta non è mai stata demograficamente così debole nella storia del nostro paese, tanto che l’incidenza dei giovani-adulti tra i lavoratori è arrivata al poco meno del 18% contro il 27% di venti anni fa. E la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente. Infatti, sempre secondo la simulazione del CNEL in uno scenario al 2040, si profila una ulteriore tendenza alla riduzione dell’occupazione giovanile per quanto un ampliamento dei tassi di occupazione delle fasce più giovani potrebbe controbilanciare la tendenza demografica negativa. Resta il tema di un potenziale ulteriore affievolimento della produttività connesso all’ampliamento della parte di lavoratori aventi una maggiore anzianità, al punto che secondo simulazioni dell’OCSE in assenza di variazioni nelle aspettative di vita nel 2050 il nostro paese potrebbe essere il terzo tra quelli più sviluppati per maggiore riduzione del PIL pro-capite.
Tuttavia la stagnazione della produttività al crescere dell’età non è una tendenza generalizzata, in quanto altre analisi a livello internazionale evidenziano che nel settore dei servizi la tendenza al declino con l’aumento dell’età non è un percorso provato. In particolare sembra che il valore delle conoscenze acquisite nelle funzioni non di routine e a maggiore contenuto intellettuale, soprattutto quando il lavoro è organizzato per gruppi che svolgono mansioni più qualificate, consenta quel rewamping di produttività evidenziato nel grafico. Indubbiamente questo aspetto è collegato all’utilizzo di livelli di digitalizzazione più avanzati in grado di migliorare la complessiva prestazione lavorativa, che a sua volta è strettamente legata al livello di motivazione della forza lavoro. Questo è sicuramente uno degli aspetti di contrasto del possibile decremento della produttività accanto a una più forte attenzione allo sviluppo di percorsi di formazione permanente che consentono di prolungare il ciclo di elevata produttività.
Il ruolo della motivazione sta diventando sempre più rilevante per spiegare le performances produttive del capitale umano e spesso analisi empiriche riferite a strutture produttive con una analoga composizione dei lavoratori per fasce di età e analoghi livelli di automazione, rivelano che dove esiste una maggiore motivazione del personale ci sono anche risultati economici superiori. Un mix di partecipazione, di fiducia accordata e ricambiata nelle relazioni lavorative contribuisce a migliorare il senso del lavoro e quindi anche la motivazione.
Tra queste rientra un sempre più elevato riconoscimento del proprio contributo lavorativo, non solo in termini economici – peraltro essenziali in un paese che negli ultimi anni è diventato fanalino di coda a livello internazionale per retribuzioni in termini reali – ma anche come status lavorativo, possibilità di incrementare il proprio bagaglio di conoscenze professionali e autonomia decisionale. Diviene sempre più importante al riguardo il cosiddetto chain giving, ossia la capacità di attivare processi di responsabilizzazione dove i dipendenti diventano protagonisti di un modello condiviso e lo trasmettono ulteriormente ad altri.
Si tratta di aspetti che con il crescere dell’età dei lavoratori vanno attentamente presidiati e divengono particolarmente rilevanti per gli over cinquanta ai quali, considerato l’andamento demografico, occorre prestare ovunque una particolare attenzione, soprattutto nel nostro Paese, proprio nella linea di contrastare con forza le evitabili tendenze al declino e raccogliere quella che Mario Draghi ha definito la “sfida esistenziale” per la produttività.