Sull’ennesima guerra tra israeliani e palestinesi nella Striscia di Gaza, seguita agli scontri nei Territori occupati, pubblichiamo un articolo di Daniela Huber uscito il 17 maggio su www.affarinternazionali.it. Daniela Huber è responsabile Mediterraneo e Medio Oriente dell’Istituto Affari Internazionali e editor di International Spectator e docente Università Roma Tre.
La catena di eventi che ha portato alle violenze che stanno insanguinando i Territori palestinesi occupati e Israele si è innescata lo scorso 2 maggio, quando la Corte distrettuale di Gerusalemme ha decretato lo sfratto forzato di tredici famiglie palestinesi dalle loro abitazioni, assegnandole a famiglie di coloni israeliani.
Le abitazioni in questione si trovano nel quartiere Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est, che Israele ha occupato dopo la guerra del 1967 e illegalmente annesso nel 1967-81. Furono edificate ex-novo su un’area boschiva – dunque senza espellere alcun abitante – e date alle famiglie di palestinesi dopo che quest’ultime furono costrette a lasciare le loro case nel 1948. Queste famiglie non hanno modo di adire le corti israeliane per reclamare il diritto a tornare nelle abitazioni – molte delle quali dislocate anche a Gerusalemme ovest, così come in molte altre aree oggi a maggioranza ebraica –, da cui furono originariamente sloggiate.
La sentenza ha provocato, come avviene da oltre un decennio, manifestazioni di protesta pacifica da parte degli abitanti del quartiere, che si sono rapidamente estese alla popolazione palestinese nei Territori occupati, nei campi profughi in Libano e Giordania, nonché in Israele stesso. Le autorità israeliane hanno risposto con duri interventi di polizia volti a sgombrare le piazze. Da qui sono originati diversi scontri, che hanno visto la polizia israeliana intervenire contro i dimostranti anche sulla Spianata delle Moschee.
L’esplosione della violenza
L’uso sproporzionato della violenza nei confronti dei dimostranti palestinesi ha rapidamente portato a un’escalation. Hamas, il gruppo armato islamista che controlla la Striscia di Gaza, ha scatenato una rappresaglia contro gli espropri a Sheikh Jarrah e le gradate e le bombe a gas utilizzate dai soldati israeliani all’interno della moschea di al-Aqsa alla fine del Ramadan. A questo scopo ha avviato una campagna di razzi verso Israele, colpendo indiscriminatamente anche aree civili. La contro-rappresaglia non si è fatta attendere e, com’è stato il caso in tempi recenti (2009, 2012 e 2014), è stata durissima. Nel momento in cui scriviamo, i raid aerei di Israele – che al contrario di Hamas dispone di armi ad alta precisione – hanno provocato la morte di almeno 185 palestinesi, tra i quali 47 bambini (e hanno anche bombardato gli uffici di Al Jazeera e dell’Associated Press a Gaza). I razzi di Hamas hanno ucciso tre ebrei israeliani, tre palestinesi di cittadinanza israeliana e una cittadina indiana. Gaza è una delle aree a maggiore densità del mondo, i suoi confini terrestri e marini sigillati dalle forze armate di Israele (e dell’Egitto). Su una popolazione complessiva di 1,9 milioni, 1,4 milioni sono profughi (in larga parte cacciati dalle loro case nel corso delle guerre del 1948 e del 1967), privi di rifugi anti-aerei e impossibilitati a raggiungere aree sicure. In questo senso, Gaza rappresenta, come ha mostrato Tareq Baconi, l’emblema dello spossessamento e dell’“enclavizzazione” di cui i palestinesi fanno misera esperienza da decenni.
Gaza non è però l’unico teatro delle violenze, che sono tracimate oltre quella che comunemente la comunità internazionale chiama la “linea verde”, ovvero i vecchi confini antecedenti alla guerra del 1967. Ci sono stati diversi episodi di violenza – che hanno coinvolto folle inferocite di ebrei e palestinesi con cittadinanza israeliana – in diverse città di Israele, forzando il governo a schierare la polizia di frontiera all’interno della linea verde (un’altra prova, se ce ne fosse ancora bisogno, che la linea verde non esiste più).
I fatti di queste ultimi giorni e ore mostrano chiaramente che le condizioni in cui versano i palestinesi a causa delle politiche di Israele – che Human Rights Watch, la maggiore organizzazione di diritti umani al mondo, ha recentemente documentato essere di fatto un regime di sistematica oppressione o, secondo la definizione dello Statuto di Roma del 2002, di apartheid – continuano e continueranno a generare violenza, disperazione e morte.
La reazione dell’Ue
La risposta dell’Europa è stata, nella migliore delle ipotesi, evanescente. Inizialmente, l’Unione europea si è appellata al diritto internazionale. Il 5 maggio ha denunciato gli sfratti di Sheik Jarrah come atti “illegali in base al diritto internazionale [che] alimentano le tensioni sul terreno”. Dopo che la situazione è degenerata, tuttavia, il diritto internazionale è sparito dalle dichiarazioni dell’Ue. L’Ue ha ribadito il “legittimo bisogno di Israele di proteggere la sua popolazione civile”, ma non ha menzionato il bisogno legittimo di proteggere la popolazione civile palestinese o il diritto di quest’ultima a difendersi. Si tratta di un atteggiamento in linea con la perdurante copertura diplomatica che l’Ue offre a Israele ormai da anni.
Come sostengo nel mio ultimo libro, l’Unione europea ha costruito la narrazione della questione palestinese come un conflitto tra due attori posti sullo stesso livello. Così facendo non solo viene ignorata la smisurata asimmetria di potenza tra Israele, uno stato prospero e tecnologicamente e militarmente avanzato, e una popolazione palestinese povera e priva di risorse militari. Viene anche annullata la realtà di un’occupazione militare che priva la popolazione occupata di elementari diritti umani individuali e nega sistematicamente il diritto collettivo dei palestinesi di ritornare alle loro case, in conformità alla risoluzione 194 dell’Assemblea Generale dell’Onu e al diritto di auto-determinazione codificato dalla Carta delle Nazioni Unite.
L’Ue ha sì espresso sconcerto di fronte “al gran numero di morti e feriti civili, tra cui bambini”. Ma si tratta di nuovo di una posizione molto discutibile, dal momento che alcuni Stati membri dell’Ue come Germania e Italia, nonché il Regno Unito, sono importanti fornitori di armi a Israele. Ciò spesso non rispetta la posizione comune Ue sul commercio di armi, che vieta la vendita di armi a parti in conflitto. Si tratta di un aspetto ancora più rilevante in considerazione delle preliminari indagini condotte dalla Corte penale internazionale in relazione a possibili crimini di guerra compiuti da Israele nella Striscia di Gaza.
Un cambio di passo
L’Ue, o almeno alcuni suoi Stati, non sono in altre parole attori neutrali nel conflitto israelo-palestinese. Al contrario, sono responsabili di pratiche che contrastano col diritto internazionale. Per esempio, gli Stati membri dell’Ue continuano a commerciare (pur non in termini preferenziali) con gli insediamenti illegali di Israele, implicitamente riconoscendoli e anzi contribuendo a sostenerli economicamente. Ciò rappresenta una violazione degli obblighi degli Stati terzi in base alla Quarta Convenzione di Ginevra, di cui tutti gli Stati membri dell’Ue sono parte. È pertanto della massima importanza che l’Ue riconsideri le sue relazioni commerciali con Israele, sia per quanto riguarda la vendita di armi sia per quanto riguarda i traffici con gli insediamenti nei Territori palestinesi occupati. Sul piano diplomatico è invece imperativo un cambio di paradigma che affronti la radice del problema e punti a una pace giusta, fondata sul rispetto dei diritti umani di tutte le parti coinvolte. Questo cambio di paradigma, oltre a confermare il legittimo e inderogabile diritto dello Stato d’Israele a vivere e prosperare in piena sicurezza, deve riconoscere che la privazione di diritti individuali e collettivi di cui i palestinesi in vario modo soffrono dal 1948 non può umanamente essere accettata oltre.
È un’aberrazione del tutto contraria all’ethos del mondo post-coloniale nel quale viviamo e che non può più essere ignorata.