Al Vertice Europeo informale tenutosi a Brdo (Slovenia) ai primi d’ottobre, il Primo Ministro Draghi ha sollevato, in conferenza stampa, il tema della “difesa europea” per chiedersi come l’Unione Europea e gli Stati membri possano meglio contribuire a guidare le scelte della NATO, vista l’attuale minore attenzione strategica degli Stati Uniti verso l’Europa. Una dichiarazione in sé per sé ortodossa, o come si suol dire “politically correct”, perché ribadiva la perdurante fedeltà all’Alleanza Atlantica e insisteva soprattutto sulla necessità di aumentare il peso specifico europeo all’interno di questa organizzazione, non di trovare alternative.
Quello che non è sfuggito agli osservatori è però il momento particolare in cui questa dichiarazione è stata formulata: dopo il “flop” di Biden in Afghanistan e dopo la veemente reazione francese ad un nuovo patto anti-cinese tra USA, Regno Unito ed Australia (con cancellazione di un’importante commessa di sommergibili francesi); il tutto nell’attesa di un nuovo governo a Berlino.
In Italia siamo sempre stati a favore di qualunque sviluppo europeista, anche nel settore della politica estera, della sicurezza e della difesa comune, purché tali sviluppi non equivalessero ad una sostanziale uscita dall’“ombrello” americano, criticabile fin che si vuole ma pur sempre sicuro, per approdare ad una problematica egemonia francese dell’Europa, certo non più esplicita come in De Gaulle ma pur sempre “leonina” (ricordate “quia nominor leo” di Fedro?) in termini di condivisione di strumenti (arma nucleare e seggio permanente in Consiglio di Sicurezza).
Oggi Draghi può permettersi di lanciare un segnale a Parigi, pur rimanendo nell’alveo delle coordinate tradizionali, forte del suo carisma e delle sue impeccabili credenziali, tanto in Germania quanto oltre Oceano. E fa bene, perché “chi non risica, non rosica”.
Se vogliamo superare le limitazioni per noi della “locomotiva franco-tedesca” ed assicurare il ritorno ad una gestione più collegiale degli affari europei, dobbiamo in qualche modo impegnarci ora a colmare il vuoto determinato dalla temporanea latitanza dei successori della Merkel e dire qualcosa che non lasci solo Macron a sventolare il vessillo dell’”autonomia strategica europea”. Ne abbiamo già parlato ma occorre forse ritornarvi per alcune puntualizzazioni.
La prima riguarda proprio la terminologia. Pericoloso parlare della “difesa europea” come potenziale vettore del processo d’integrazione. Sarebbe come costruire una casa, partendo dal tetto. La messa in comune dello strumento militare sarà invece inevitabilmente l’ultimo passaggio delle complesse condivisioni di sovranità che dobbiamo ancora costruire. Va ripresa allora la formula (che Pier Virgilio Dastoli definì “gesuitica”) varata a Maastricht nel 1992 (art. J.4.1) di una «politica estera e di sicurezza comune, che comprende tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione Europea, ivi compresa la definizione a termine di una politica di difesa comune, che potrebbe successivamente condurre ad una difesa comune». Non tutto è facilmente comprensibile in quel linguaggio, salvo l’estrema gradualità e prudenza.
Dopo quasi trent’anni, ci sono stati tanti piccoli passi avanti nei vari Trattati che si sono succeduti e sono state avviate numerose missioni europee, militari o civili, per la gestione delle crisi o la stabilizzazione delle situazioni post-conflittuali. Manca però una adeguata assunzione di responsabilità politica per tali iniziative e manca, a monte, una sufficiente rapidità decisionale e capacità autonoma di proiezione.
Oggi, quando si parla di “esercito europeo”, si pensa sostanzialmente ai piani per una futura forza d’intervento rapido, che dovrebbe essere composta da circa 5000 unità. Non una grande cifra per un’unione continentale di circa 450 milioni di persone! Soprattutto, finchè questa forza non sarà effettivamente precostituita (e quindi di impiego immediato) e serviranno ancora mesi di estenuanti trattative per raggiungere il livello di forza ipotizzato.
Poi, ci dicono gli americani che spendiamo troppo poco per la difesa. Forse hanno ragione per i loro standard. Da ogni punto di vista, comunque, spendiamo male e sprechiamo troppo. Come direbbero gli economisti, c’è probabilmente anche un problema di “input” ma c’è soprattutto un problema di “output”. I programmi nazionali comportano inevitabilmente duplicazioni ed una ridotta produttività delle risorse impiegate. Molto meglio sarebbe quindi puntare sulle economie di scala consentite dal mercato unico e dai programmi europei di ricerca (tipo Horizon 2020 ed auspicabilmente i suoi successori), finalmente estesi anche alle tecnologie “duali” (con impieghi civili e militari).
Di tutto questo, e di tanto altro, si dovrà parlare nella “Bussola Strategica”, il documento di indirizzo che dovrà essere presentato dalla Commissione Europea nella primavera prossima, immagino in concomitanza con il Vertice Europeo sulla Difesa, chiesto da Macron. È saggio, quindi, che Draghi lavori per una stretta collaborazione italo-francese per preparare questo importante incontro.
Le possibili convergenze industriali sono note, dalla cantieristica all’alta tecnologia spaziale.
La chiave di volta di una possibile convergenza politica potrebbe essere costituita da un’idea abbastanza semplice ed intuitiva, ma ancora assolutamente tabù in ambito atlantico: arrivare ad ipotizzare che l’Unione Europea parli con una voce sola in sede NATO (c.d. EU Caucus).
Già lo si fa in quasi tutti i fori internazionali, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite all’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE). Perchè non farlo anche nell’Alleanza Atlantica?
Soprattutto ora che gli Stati Uniti sono distratti da altri scenari geo-strategici e si aspettano una prova di maturità dall’Europa. Con poche frasi, e tanti delicati ragionamenti sottintesi, il Presidente Draghi lo ha fatto capire nella recente conferenza stampa di Lubiana: “Whatever it takes” anche per l’autonomia strategica europea.