Il ruolo dell’Italia in Afghanistan ha radici più profonde di quello che si possa immaginare. Il governo Bonomi, su iniziativa del ministro Carlo Sforza, fu difatti il primo governo europeo a riconoscere l’indipendenza afghana nel 1921, a seguito della firma del Trattato di Rawalpindi del 1919 che sancì la vittoria afghana nella terza guerra contro i britannici.
Divenne chiaro già allora il valore regionale dell’Afghanistan, tenace custode di una posizione strategica nel contesto mediorientale che era disposto a difendere fino a diventare “un cimitero di imperi”. Nei primi anni Venti furono quindi avviate relazioni diplomatiche e commerciali, mentre l’ambasciata italiana a Kabul fornì assistenza alla neonata monarchia Afghana nella pianificazione di importanti riforme socio politiche, tra le quali la stesura della prima Costituzione, il codice di famiglia e della protezione della donna nonché l’introduzione della scolarizzazione elementare obbligatoria (sia per maschi che per femmine). Successivamente a Roma trovarono asilo ben due sovrani Afghani rovesciati da colpi di Stato, Amānullāh Khān nel 1928 e Anche Zahir Shah nel 1973. Kabul fu inoltre rampa di lancio per alcuni noti funzionari italiani come il ministro plenipotenziario Pietro Quaroni, che dal 1936 rimase alla guida della nostra sede diplomatica per ben 8 anni.
Durante la guerra fredda le relazioni Italia-Afghanistan non subirono sviluppi di rilievo. I rapporti si congelano del tutto e l’ambasciata fu chiusa durante il periodo dell’occupazione sovietica dal 1979 al 1989 e dopo la presa al potere dei talebani dal 1996 al 2001.
Nel 1999 il ministero degli Esteri guidato da Lamberto Dini si affiancò ad un ritrovato interesse statunitense per la questione afghana in un’ottica di contrasto alle attività terroristiche dopo gli attentati di al-Qā‘ida alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania l’anno precedente. Fu così organizzata a Roma la prima assemblea nazionale Afghana (Loya Jirga) che portò all’istituzione del cosiddetto “Gruppo di Ginevra” sotto l’egida di Stati Uniti, Germania, Italia e Iran per coadiuvare le forze di opposizione ai talebani.
La cooperazione italo-americana per il contrasto alla minaccia terroristica verrà ulteriormente rafforzata a seguito della decisione del presidente J.W. Bush di attivare la clausola di muta assistenza NATO (articolo 5 del relativo trattato) in risposta all’attacco al World Trade Center ed al Pentagono dell’11 settembre 2001. Quindi nel 2002, l’Italia ha prontamente dichiarato la sua partecipazione all’operazione NATO Enduring Freedom, che trovava la sua base legale nella risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU 1368, e successivamente alla caduta dei talebani, alle missioni ISAF e “Resolute Support”.
Con un totale iniziale di 4.300 unità, il nostro contingente risultò il quinto per numero di truppe, le quali erano stanziate tra Kabul e le province occidentali di Herat e Farah. Il contributo italiano è stato anche alto sul campo di battaglia, con in totale 53 italiani morti e 651 feriti. Nel teatro operativo il nostro contingente è stato impegnato in attività di antiguerriglia così come di addestramento delle truppe locali. La professionalità dei nostri militari ha sempre suscitato stima tra gli alleati, ma ancor di più apprezzata è stata l’abilità di rapportarsi con la popolazione civile. Importante è stata anche la cooperazione in vari ambiti tecnici oltre a quello dell’addestramento militare che hanno contributo al processo di nation building dello Stato afghano come l’attività di formazione da parte della Guardia di Finanza della polizia afghana nella attività di controllo delle frontiere, training delle autorità dell’Afghan Civil Aviation Authority di formarsi nel settore dei servizi aeroportuali nonché la riforma del sistema giudico afghano attraverso l’Ufficio Italiano di Giustizia. Rilevante è stata inoltre l’azione di cooperazione allo sviluppo.
Una recente indagine del ‘Sole24Ore’ evidenzia come in Afghanistan l’Italia ha contribuito alla realizzazione di 2.290 progetti, con una particolare dedizione nel settore dell’istruzione, la cui spesa per la costruzione di 100 scuole e l’acquisto di materiale didattico ha assorbito il 27% del budget totale, seguito da investimenti in salute pubblica (40 ospedali), vie di comunicazione, infrastrutture idriche (800 pozzi) ed agricoltura. Un impegno di tale portata nel paese ovviamente non è stato esente da elevate spese finanziarie, che dal 2001 al 2020 sono ammontate ad un totale di 6,77 miliardi di euro. All’azione del governo italiano si è poi affiancata quella di numerose ONG italiane tra le quali Emergency, che continua ad operare in territorio afghano.
Dopo vent’anni di continuo sostegno italiano a Kabul, il rapido ritiro americano e la parallela avanzata talebana hanno sancito la fine della presenza italiana nel paese. Il notevole sforzo operativo italiano ha permesso l’evacuazione non solo del nostro contingente ma anche di numerosi collaboratori afgani e membri della società civile. Tale operazione (denominata “Aquila Omnia”) è stata attuata in un contesto particolarmente critico, con la programmazione di decine di voli transazionali, resa ancora più difficile dalla chiusura dello spazio aereo degli Emirati Arabi Uniti ai nostri aerei militari (in risposta alle limitazioni sull’esportazioni di armenti) e la conseguente azione diplomatica per riallocare gli atterraggi in Kuwait, Qatar e Pakistan.
Sul terreno invece le nostre istituzioni, rappresentate dal console Tommaso Claudi e supportate dai carabinieri del ‘Tuscania’, sono rimaste in prima fila. Le operazioni di rientro hanno permesso l’evacuazione di 4.890 afghani, tra le quali anche giovani donne supportate dai programmi delle nostre NGO e l’unica guida turistica donna del paese. Al contempo essenziale si è dimostrata l’attività di coordinamento fra i vari membri della NATO svolta dall’ambasciatore Stefano Pontecorvo, Alto rappresentante civile dell’Alleanza atlantica in Afghanistan.
Oggi l’Italia non è più in Afghanistan. Tuttavia il governo italiano, come al tempo della prima presa di potere dei talebani nel 1996, ha intrapreso una serie di iniziative per una soluzione quadro multilaterale al problema afghano. In primo luogo, la Farnesina sta pianificando l’invio a Doha di un ufficio diplomatico con il compito di seguire la crisi afghana. Il ministro Di Maio ha poi guidato una missione in Uzbekistan, Tagikistan, Qatar e Pakistan per sostenere un approccio regionale rispetto alla gestione afghana. A Roma poi è stata avviata un’intensa azione di ‘summit diplomacy’ che ha portato al ministero degli Esteri gli ‘Inviati Speciali per l’Afghanistan’ di vari paesi mentre il presidente del Consiglio Draghi ha convocato un G20 straordinario per fronteggiare le sfide dell’Afghanistan postbellico.
Prima grande sfida che il nostro paese sarà costretto ad affrontare rimane la gestione della crisi umanitaria che grava sull’Afghanistan, senza però aprirci ad un ufficiale riconoscimento delle autorità talebane. La questione, che si intreccia con ulteriori problematiche quali i flussi migratori e la stabilità regionale, non può e non deve essere affrontata da un singolo Stato unilateralmente. A tal fine, l’Italia necessita un’azione di ampio respiro che non può che trovare il suo naturale sbocco in una serrata cooperazione in seno all’Unione Europea. Solo così si potranno raggiungere risultati concreti per un popolo che ha sempre visto nel nostro paese un punto di riferimento.