Il cinema globale si è fatto ingolosire dal nuovo fenomeno che lo sta portando a consunzione e poi, dopo averlo contaminato, lo distruggerà. Vittima di una curiosa “sindrome di Stoccolma”, insieme capro espiatorio e carnefice in un combinato poco disposto con il grande colosso tra le piattaforme mediatiche: inevitabilmente Netflix.
Manca una statistica in proposito, rimanendo nel recinto italiano, su quanti nostri connazionali, nel biennio della pandemia, siano rimasti ostaggio della dipendenza dalle serie televisive. Perché proprio quella modalità iterativa, prolungata, seriale, è il vero concorrente alla visione pura del film in una sala cinematografica. Il cinema ha venduto l’anima al diavolo e così i registi. Non si spiega altrimenti, tanto per fare un esempio clamoroso, come l’ultimo film di Sorrentino (“E’ stata la mano di Dio”) sia stato distribuito nelle sale per un moderatissimo numero di giorni per poi essere stato rimesso a disposizione del colosso che domina l’immaginario mondiale. Del resto non era stato proprio il movie-maker napoletano a cedere alle lusinghe del mercato con The Young Pope? Film in condominio, pellicole che con una poco sapiente campagna pubblicitaria, vengono mitridatizzate dal sistema. Le major non si sono opposte a quella che con termini positivi si può definire una conversione, una contaminazione o una sinergia. Il sistema economico ha pacificamente abdicato anche a livello ufficiale tanto è vero che questi prodotti di scambio possono concorrere agli Oscar anche con una limitatissima diffusione nelle sale. E Netflix appartiene al Gotha di chi decide come dobbiamo passare il tempo né più né meno di Google, Tik Tok o Instagram.
C’è un principio di predazione dell’iconico in questa trasformazione sostenuto da robustissimi introiti. Netflix è alla portata di tutti per un costo dell’abbonamento più che concorrenziale con Sky. I dati del cinema nelle sale nel 2021 dimostrano la residualità del fenomeno: 170 milioni di euro incassati (il più visto film di Zalone è capace di un exploit che vale il 50% di questa cifra) con 235 milioni di biglietti venduti. Sull’altro versante nel forziere di Netflix si sono consolidati 900 milioni di dollari (questa la stima dell’impact value). Squid Game è stato visto per 1 miliardo e 650 milioni di ore da un pubblico che non ha steccati di sesso, di continenti, di orientamento politico.
Il nuovo prodotto seriale globalizzato va bene per gli italiani, come per gli americani o i cinesi. Naturalmente questo non è senza influenza sull’omogeneità del servizio pubblico. Se date un’occhiata a un qualunque palinsesto quotidiano di Rai due vi accorgerete che, a parte qualche talk show o programma riempitivo occupa-schermo del mattino, c’è un’orgia di telefilm americani non di primo pelo. Molto più facile per i curatori della rete abbeverarsi a questo filone piuttosto che tentare strade originali ed autoctone. Ci si solleva da un diretto impegno produttivo, si compra e si immette in magazzino a scatola chiusa. Nella serialità si è creato un arcipelago dell’immaginario senza limiti. Dove i protagonisti possono apparentemente morire ma poi rinascono (v. Bastardi di Pizzofalcone). Tra prequel e sequel l’unico che può perdere la bussola è il consumatore, non certo il mercato.