Un problema di abbondanza è quello destinato ad imporsi a biblioteche e mediateche: dover allestire nei propri spazi una “Sala Pasolini”. A cento anni dalla sua nascita “in una città piena di portici”, continuano infatti ad uscire materiali di ogni genere. L’opera, così feconda e contraddittoria, dell’intellettuale più importante e discusso del nostro Novecento continua a ribollire per versatilità, vastità e ricchezza; per densità di suggestioni estetiche, artistiche, storico-filosofiche. Di nessun intellettuale italiano del secolo “breve” (e in Europa forse solo di Jean Paul Sartre) si è tanto scritto e parlato, discettato e cantato, in tutte le lingue della Babele mondiale. Anche della morte, mistero in parte irrisolto, fra processi, contro processi, inchieste, illazioni, ipotesi, depistaggi. Come per l’inizio di una guerra o per un eccezionale avvenimento storico, tutti ricordiamo dove eravamo quel giorno e cosa abbiamo fatto dopo. Io ero a casa davanti alla TV, prima di una visita programmata al Palazzo dei Diamanti di Ferrara per una mostra di Andy Warhol (“Ladies & Gentlemen”), detta dei travestiti neri. Introdotta in catalogo – ma non lo sapevo – proprio da uno scritto di Pasolini. L’ultimo, se si eccettua la famosa intervista a Furio Colombo del giorno prima.
Scrittore, poeta, critico, regista, sceneggiatore, saggista, drammaturgo, pittore, Pier Paolo Pasolini ha scritto articoli decisivi (gli “Scritti corsari” sono uno dei testi fondamentali del nostro tempo), fondato e diretto riviste. Scritto canzoni. Non c’è tipo di creazione (a parte la musica), né di cultura (letteraria, religiosa, filosofica, antropologica, psicoanalitica, mediatica – compresa la musica), antica o moderna, che lo abbia visto negarsi alla curiosità, alla conoscenza, alla scrittura e al fuoco del dibattito. Siamo ormai alla terza generazione che ancora si ritrova ogni tanto a pensare, in barba al passare del tempo, che cosa penserebbe Pasolini in questa o quest’altra circostanza della vita pubblica. Senza saperlo, ovviamente, ma forti di una presunzione di vicinanza. Viene in mente un bellissimo, oggi introvabile, film russo, “Ho vent’anni” (in originale “Barriera Ilic”, cioè Lenin) di Marlen Khutsiev – stroncato in una Russia pure già krusceviana – in cui il giovane protagonista, di fronte ai fermenti anni ’60 che già turbavano anche quel mondo – e ai richiami all’ordine patriottico della giusta, sovietica “way of life” – si rivolgeva in sogno all’immagine eroica del padre morto a Stalingrado, chiedendogli: “Cosa faresti tu?”. E il padre rispondeva: “Cosa vuoi che ne sappia? Son morto da vent’anni. Oltretutto prima di arrivare alla tua età. Dimmi tu cosa faresti; se sei mio figlio, forse è ciò che farei io”. (Cito a senso, da un ricordo di quasi cinquant’anni fa.) “Figlio che non sarà mai padre” (così si definiva PPP), con un unico fratello, morto tradito in un brutto episodio della resistenza in Friuli, ha avuto più figli e fratelli lui di qualunque altro intellettuale post gramsciano. Ha avuto anche molti “padri”, di cui avrebbe fatto volentieri a meno, ma con i quali non ha mai, con mite ostinazione, evitato il confronto. Riaccendendolo, anzi, quando sopiva.
“Sono uno / che è nato in una città piena di portici nel 1922”. Da due mesi, Pasolini è su tutti i muri di Bologna, che ne ricorda, e mostra in ogni angolo, le tappe di quei primi ventott’anni. La topografia personale e intellettuale. Il liceo Galvani con le lezioni dell’ex allievo Gaetano Arcangeli; l’Università e la tesi su Pascoli (come già Arcangeli); la “Libreria Antiquaria Palmaverde”, in via Castiglione, teatro del mezzo secolo di lotta di Roberto Roversi contro il “tarlo inimico” e sede di “Officina”, la rivista creata dai due nel ’55 con Francesco Leonetti (il burattinaio di “Che cosa sono le nuvole”, voce del corvo di “Uccellacci e uccellini”), sulla quale Italo Calvino pubblicò in 5 puntate (fra il 57 e il 58) ”I giovani del Po”, rimasto su quelle pagine raccolte 18 anni fa dall’editrice Pendragon, e Roversi i capitoli in versi di “Dopo Campoformio”. Poi il “Portico della Morte” dei primi scritti, con la storica libreria Nanni e i suoi banchi, di fronte alla Chiesa della Morte – a fianco c’è quella della Vita – e sede ai miei tempi (non so adesso) del tradizionale mercato dell’usato scolastico di settembre, che a Roma prende mezzo chilometro di lungotevere. Il Portico dei Servi del finale dell’ ”Edipo Re”, i Prati di Caprara delle prime partite di football e lo stadio dove tifava Bologna con l’urbinate Paolo Volponi e Laura Betti; il palasport della pallacanestro, dove capitava il figlio di un ingegnere tedesco di Genova, Vittorio Gassman, giunto alle soglie della nazionale di basket e poi dedicatosi ad altro (lui tifava Genoa, altri rossoblu). Gli esordi poetici con il bolognese (non ferrarese) Giorgio Bassani, nato poeta (“L’alba ai vetri”) e la trasmissione di Biagi (“Terza B, facciamo l’appello”). Eccetera, eccetera, eccetera.
“Salò-Sade” Questa è villa Aldini, sui colli bolognesi. Avevo letto che vi si trovava la troupe di Pasolini per girare alcune scene di “Salò” e andai con la macchina fotografica. Arrivai che non c’era più nessuno e rimangono le foto. Il film inaugurava quella che avrebbe dovuto essere una “Trilogia della morte”, dopo quella “della vita” (“Decameron”, “I racconti di Canterbury”, “Il fiore delle Mille e una notte”), ma almeno il secondo dei tre contraddiceva abbastanza vistosamente il titolo della serie, per umore e toni. Come sappiamo, “Salò” non ebbe seguito, ma ciò che ancora stupisce, attraverso il bellissimo “Pasolini Prossimo Nostro” di Giuseppe Bertolucci, girato su quel set, è la bellezza di quei corpi che non si poteva fare a meno di amare (quelli delle vittime, ovviamente). Un film sul disprezzo e lo sfregio dei corpi riservava il suo cuore nero alle vicende trattate, non potendo fare a meno di amare in maniera dolcissima e folle, sacralizzandolo, quel teatro vivente dell’infamia. Oggi che torme di sciagurati mettono in scena l’orrore coinvolgendo chi guarda non in un orrore intellettuale, ma fisico e ripugnante, credendo di fare opera di demistificazione, stupisce come uno dei film più “maledetti” della storia del cinema si muovesse in direzione opposta. Ma confrontando, al di là delle tematiche, “Canterbury” e “Salò”, viene in mente quel che scriveva Franco Fortini (“Attraverso Pasolini”): Pier Paolo chiamava spesso vita quel che noi chiamiamo morte. (Un capitolo curioso di questo film terribile e straziante è quello della partecipazione, nei termini che lui stesso racconta , di Pupi Avati, certo il più imprevedibile dei collaboratori alla realizzazione di un film del genere, pensato in un primo tempo per Sergio Citti.)
Decameron e decameronici. Il 1971 è uno degli anni più felici di Pasolini. Si gira “Decameron”. Sarà di gran lunga il suo maggior successo. Per la prima volta, a nove anni da “Accattone”, un suo film metterà d’accordo tutti: la critica (e fin qui…), i giurati della Berlinale (Orso d’argento) e il grosso pubblico, facendone un asso del box office. Gli avvelenerà il trionfo la nascita di un sottogenere godereccio e sguaiato che verrà detto dei “decameronici”: decine e decine di film con titoli in un medievale maccheronico che mima quello della novellistica boccaccesca. A cui darà nuovo impulso, di anno in anno (è in fase iperattiva, e gira un film all’anno) l’uscita di “Canterbury” e poi del “Fiore”. Abiurerà dalla “Trilogia della vita” con un saggetto che ha quel titolo, ma il 7 gennaio del 1973, un anno prima dell’uscita del “Fiore” e otto mesi dopo la nomina a direttore di Piero Ottone, il “Corriere della Sera” ha pubblicato in prima pagina (non in terza, come d’uso), l’articolo con cui Pasolini inaugura la sua collaborazione al giornale. Si intitola “Contro i capelli lunghi”. Nascono gli “Scritti corsari”. Un’abiura dall’Italia: altro che dalla “Trilogia della vita”. Ma torniamo al ‘71.
UN GIOCO DI POETI E PROSATORI.
Il Pasolini del “Corriere” veniva da una collaborazione ultra decennale con “Il Giorno”, il giornale fondato da Enrico Mattei. La culla di tutto il moderno giornalismo italiano è diretta in quegli anni da Italo Pietra e il 3 gennaio 1971, pubblica un singolare articolo di Pier Paolo Pasolini, che riemerge in questi giorni dalle riserve di caccia del web. Titolo: “Il calcio è un linguaggio, con i suoi poeti e prosatori”. Una divertente e un po’ stramba analisi linguistica del calcio, visto come un sistema di segni: un linguaggio che di quello scritto-parlato – cioè del linguaggio per antonomasia – avrebbe tutte le caratteristiche fondamentali. Invece che attraverso le infinite combinazioni dei «fonemi» (in italiano, le 21 lettere dell’alfabeto), le parole di questo linguaggio nascerebbero dalle altrettanto infinite combinazioni dei “podemi” (i 22 in campo): in pratica, i passaggi del pallone fra un giocatore e l’altro. I movimenti dei 22 “podemi” strutturano un “discorso” la cui sintassi si esprime nella “partita“, vero e proprio “discorso drammatico”, in prosa o in poesia. Il calcio in prosa è quello europeo, in cui il goal (acme poetico del gioco) è la conclusione di una manovra collettiva, fatta di palleggio e geometrie. Il calcio in poesia è quello latino-americano, fondato sul genio del dribbling (che gli europei snobbano in nome della “prosa collettiva”), nel quale il goal può essere inventato da chiunque, qualunque sia il ruolo e la posizione. Se dribbling e goal sono i momenti individualistico-poetici del calcio, il calcio brasiliano è un calcio di poesia. Senza far distinzione di valore, ma in senso puramente tecnico, in Messico [Olimpiadi 1968] è stata la prosa estetizzante italiana a essere battuta dalla poesia brasiliana.
Noticina specifica senza pretese. Non è facilissimo entrare in sintonia con questo divertito approccio teorico di Pasolini al calcio. Con questa sua vocazione ad applicare – a costo di forzarli – i principi della linguistica a qualunque forma di linguaggio extra verbale (come ha sempre fatto del resto con il cinema). Già sembra curioso definire “fonemi” le 21 lettere dell’alfabeto visti gli accenti e gli infiniti slittamenti espressivi legati alla pronuncia di ogni lettera, vocale o consonante che sia. Ancora più bizzarro chiamare “podemi“, anche scherzosamente, i ventidue disgraziati che prendono a calci un pallone su un rettangolo di prato. Le vere “unità linguistiche” del calcio, i fondamenti della sua retorica, sembrerebbero semmai altri: le modalità del tocco, del passaggio, dello stop, del palleggio, del tiro, ecc. Anche la valutazione del gol come atto poetico per eccellenza – con il dribbling e, forse, l’assist (se è questo che intende con “passaggio ispirato“) – esclude, ad esempio, l’ipotesi che un portiere, o un qualunque difensore, possano ascendere al cielo della poesia; nonostante l’estremo difensore sia il più individualistico e solitario dei ruoli, quindi – seguendo il suo stesso argomentare – il più ontologicamente poetico (come ben sapeva Saba). Ha un bel da dire, il poeta, che le sue categorie di “prosa” e “poesia” sono solo tecniche, astratte da un giudizio di valore. Ma che si voglia o no, il suo ricorso alle “armi della poesia” ribadisce quell’assurdo concettuale per cui il Pallone d’Oro (massimo riconoscimento europeo per un calciatore) viene assegnato da “France Football” nove volte su dieci a un attaccante. Come se i difensori fossero figli di un Dio minore; poveracci il cui triste scopo nella professione, se non nella vita, è cercare di impedire agli avversari di esprimersi nell’unico vero gesto poetico del calcio, il goal.
Torniamo seri. L’articolo, che invito a leggere, è molto di più di un espediente per divertirsi a parlar di calcio in maniera un po’ aulica. Esprime, nelle forme del divertissement, una visione del mondo. Il secolo del cinema, con le sue avanguardie artistiche ha visto l’accesso alla regia di artisti di tutte le discipline, in una fioritura di contaminazioni fra cinema e pittura (Léger, Dalì, Warhol, da noi Schifano), letteratura (Cocteau, Duras, Robbe-Grillet), teatro (Beckett, Artaud, Bene) e poesia, di grande ricchezza. Se molti sono stati gli scrittori e gli artisti attratti dalla regia cinematografica (persino uno come Gozzano, in Italia, si cimentò nella regia: “Farfalle“, piccolo film poetico entomologico, è conservato al Museo del Cinema di Torino), nessuno nel mondo ha prodotto, in termini di capolavori, quel che ha prodotto Pasolini. Senza seguaci se non uno: Sergio Citti, il suo Virgilio nella Roma di “Accattone“; senza allievi se non a chiacchiere (o meglio uno: il primo Bertolucci), al cinema Pasolini ha dato, con i suoi temi, un linguaggio formato sulle sue predilezioni e su una cultura sterminata (anche pittorica), sui personali strazi e le dolcezze poetiche. Su una certa vocazione declamatoria, anche. Sulla sua “cattiva coscienza” gramsciana.
Nessuno forse, tranne Ejzenstejn, ha prodotto in così pochi anni una teorica del cinema così ossessiva, ma fondata, questa è la particolarità, su due paradigmi: quello letterario, soprattutto (Gianfranco Contini); e quello pittorico (Roberto Longhi). Poco o nulla interessata, almeno fino agli ultimi anni, agli aspetti tecnici. Cioè al tema fondamentale della modernità (dalla tecnica nascono le idee). Il suo personalissimo e inconfondibile stile visivo viene dall’Alto Medioevo e, sincreticamente, dall’imitazione dei Maestri più amati, da Dreyer a Mizoguchi, da Rossellini a Godard. In questo articolo sul calcio, così apparentemente autoironico, Pasolini si produce in un esercizio di alto funambolismo teorico, applicando al football, come già al cinema, come ad ogni fenomeno dell’esperienza artistica, politica o ludica, le uniche categorie interpretative che riconosce: quelle della linguistica. Non della semiologia: della linguistica. “Io vengo dalle pale d’altare“, diceva. E’ la lingua dello “straniero“. La lingua di chi viene da un altro territorio, quello della poesia. E vuole che sia chiaro.