L’Italia, dopo la disastrosa fine della seconda guerra mondiale, era una nazione semidistrutta e con una disoccupazione molto estesa. Gli italiani andarono via a cercare lavoro in Svizzera, Francia, Gran Bretagna, a parte Stati Uniti e Australia. La necessità di braccia umane, fame di lavoro e di condizioni di vita migliori fu la causa principale. Certamente con un treno era più semplice ed economico andare in nord Europa, come ad esempio in Belgio. Qui c’erano miniere di carbone e questo si dimostrò un combustibile indispensabile per la ricostruzione postbellica, ma la sua estrazione avveniva in impianti fatiscenti e pericolosi. D’altronde dopo tanti anni gli operai belgi non erano più disposti a scendere in miniera, quindi c’era la necessità di importare manodopera dall’estero.
Il governo italiano concordò con il Belgio non una migrazione spontanea, ma una «migrazione assistita». Il flusso doveva essere di circa cinquantamila lavoratori, con regole, ma la fame e la disperazione dei nostri connazionali era superiore a qualunque regola. In cambio, il Belgio si impegnava a fornire all’Italia un certo quantitativo di carbone, ma quello che muoveva l’economia erano gli italiani che lasciavano le terra del centrosud, con contratti agricoli impossibili da onorare, ma soprattutto le rimesse, ovvero il denaro che gli emigranti mandavano alle loro famiglie, arrivava subito, in effetti nello stesso momento in cui il Piano Marshall cercava di far ripartire le economie dei paesi occidentali, distrutte dalla guerra. E come una ruota impazzita questo flusso di denaro incoraggiava un’ulteriore emigrazione. Al momento del reclutamento di questi disgraziati aspiranti minatori non venivano spiegate esattamente le reali condizioni di lavoro, inoltre senza una adeguata formazione. Via: si scendeva a mille metri sotto terra con ascensori traballanti, magari uomini che erano stati contadini fino al giorno prima, chi si rifiutava veniva trattato al pari di un detenuto, un po’ di carcere e foglio di via con divieto di ritorno. Come per gli immigrati oggi che giungono da noi, non iniziavano l’avventura con la famiglia: quasi sempre l’emigrazione era programmata come temporanea e chi partiva era di solito un maschio solo. Aggiungiamo la diffusa analfabetizzazione e ovviamente il non saper parlare francese.
A peggiorare le cose, anche da un punto di vista umano, venivano alloggiati in baracche di ex campi di concentramento, in condizioni spesso estreme, senza gas ed elettricità, quasi sempre poi con a fianco colline di carbone, discariche di detriti e di resti del materiale scavato. Tanti morivano per varie malattie dovute alla aria malsana a quella profondità, gas come il grisou, silicosi, ma anche la differenza termica tra i 40° a mille metri e i -20° in superficie. In più i belgi, dimostrando razzismo e diffidenza, soprannominarono i nostri con l’appellativo di “macaronì”, con tanto di accento sulla i e sembra proprio che cinquanta e passa anni siano passati invano se pensiamo a come vengono chiamati quelli che lavorano ad esempio nei nostri terreni del sud e non solo, raccolta di pomodori e altre derrate agricole. All’inizio degli anni 50 la fame di combustibili aumentò, ma anche l’offerta con l’arrivo del petrolio. Questo, seppur le situazioni di vita e di scavo erano al limite della sopravvivenza, causò il declino dell’attività estrattiva belga, oltre che di controlli e sicurezza, laddove comunque erano già scarsi in partenza. Fu così che un incendio scoppiò nella miniera di Bois du Cazier, nel bacino carbonifero di Charleroi, nei pressi della cittadina di Marcinelle, l’8 agosto del 1956. Una tragedia che significò la morte di 262 lavoratori di dodici diverse nazionalità, ma 136 erano italiani, per lo più abruzzesi e calabresi. Furono recuperati dopo sei mesi, nessun risarcimento andò alle famiglie. Il fatto ebbe un enorme risalto in Italia, il lettore mi permetta un piccolo ricordo personale. Ogni domenica i miei mi portavano a messa, sono di Roma, quel giorno c’era un matrimonio, avevo circa 10 anni, poteva essere il 1964, il sacerdote disse che lo sposo, subito dopo il matrimonio sarebbe partito per il nord Europa a lavorare in una miniera. Da quel momento non ci fu più silenzio, tutti i presenti cominciarono a mormorare, parlare, sia di Marcinelle che di emigranti…io ne capivo poco, poi mi raccontarono, ancora ho nella mente quel giovanotto di spalle e a testa china.
Anni dopo, già adolescente, sentii alla radio una canzone, “Una miniera”, indimenticabile singolo del 1969 dei New Trolls, gruppo formatosi a Genova, in ricordo di quel fatto e sicuramente di tante storie ascoltate al porto della loro città. Ascoltiamoli:
Le case, le pietre ed il carbone dipingeva di nero il mondo
Il sole nasceva, ma io non lo vedevo mai, laggiù era buio
Nessuno parlava, solo il rumore di una pala che scava, che scava
Le mani, la fronte hanno il sudore di chi muore
Negli occhi, nel cuore c’è un vuoto grande più del mare
Ritorna alla mente il viso caro di chi spera
Questa sera come tante in un ritorno
Tu quando tornavo eri felice
Di rivedere le mie mani
Nere di fumo, bianche d’amore
Ma un’alba più nera, mentre il paese si risveglia
Un sordo fragore ferma il respiro di chi è fuori
Paura, terrore, sul viso caro di chi spera
Questa sera come tante in un ritorno
Io non ritornavo e tu piangevi
E non poteva il mio sorriso
Togliere il pianto dal tuo bel viso
Tu quando tornavo eri felice
Di rivedere le mie mani
Nere di fumo, bianche d’amore
Non credo servano altre parole, voglio dedicare questo brano a tutte le vite che si spengono, ancora oggi, nelle miniere o nei cantieri o nelle fabbriche di tutto il mondo, dalla Cina all’Ucraina, in tutti i paesi del mondo, con un numero di vittime annuali che assomiglia a una guerra, in condizioni spesso ancora disumane, senza neppure le più semplici norme di sicurezza.
Foto di apertura libera da Pixabay