“Come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore?” Il piede non è straniero, ma due registi iraniani attualmente in carcere (Giulia Della Michelina su MicroMega) si occupano da anni di rispondere alla domanda posta da Quasimodo in “Alle fronde dei salici”, applicata al vivere sotto “democratura” teocratica. Sono Mohammad Rasoulof e Jafar Panahi. Alternano anni di libertà vigilata con divieto di lavoro e di espatrio ad altri di carcere vero e proprio. Protetti nell’integrità fisica perché troppo conosciuti, ma sorvegliati e vessati, finora erano riusciti comunque a vivere in una sorta di clandestinità operativa, forzando le limitazioni a cui sono sottoposti, e a far circolare i loro film all’estero, a volte esfiltrandoli in maniera rocambolesca (“This is not a film” di Panahi, arrivò a Cannes in una chiavetta USB nascosta in una torta). I loro due ultimi film – Orso d’oro 2020 a Berlino quello di Rasoulof, recente Premio speciale della Giuria a Venezia quello di Panahi – per quanto diversissimi, sono singolarmente simili nei titoli. “Il male non esiste” e “Gli orsi non esistono” sembrano addirittura identici nel significato (il diavolo e gli orsi come babau). In realtà non è proprio così, almeno per il diavolo. Il fatto che non esista, per Rasoulof, è un guaio. Magari esistesse.
Il diavolo, probabilmente
La ballata del boia. Che mestiere fa Heshmat, 40 anni, marito e padre generoso e accomodante con tutti, di giorno impegnato con la famiglia – moglie e figlia da accompagnare e prendere al lavoro e a scuola – e poi la spesa al supermercato, gli amici, la pizza, la città intorno? Dove va di notte, quando suona la sveglia e lo aspettano in ufficio, dove oggi è arrivato in ritardo per aver perso tempo a salvare un gatto rimasto imprigionato in garage? Perché non dormi, fratello? I “tag” di “Amnesty International” e di “Nessuno tocchi Caino” lo segnalano per l’impegno contro la pena di morte, ma “Il male non esiste” non vive tanto di spirito e di illusioni illuministe. Al di fuori del particolare contesto europeo – ma non della sua storia – la pena capitale è ovunque una trista norma. “Vasto programma” sarebbe per chiunque quello di estirparla in Iran. Tributato il proprio omaggio a Hannah Arendt e alla banalità del male, il film di Mohammad Rasoulof cerca una sintesi ambiziosa fra etica e politica, puntando a coinvolgerci nell’immensa pena accessoria inflitta da un potere criminale a condannati e non condannati con il suo disprezzo per la vita umana. Il patibolo come strumento di dominio, ben oltre l’amministrazione della giustizia, i suoi fini e i suoi mezzi. Quattro storie, per una lunghezza complessiva considerevole (due ore e mezza di film). La prima, quella di Heshmat, dà il titolo al film, con il diavolo al posto del male. Le altre sono altrettante risposte alla domanda di Antigone: la legge di Dio (non uccidere) o quella del tiranno, anche quando si chiama “guardia rivoluzionaria”, che ti impone di farlo? Uomini o no?
Uomini o no? Nel suo ultimo film, “L’eroe”, Asghar Farhadi, il più conosciuto dei grandi registi iraniani, aveva mostrato lo Stato sequestratore. Il condannato a morte – anche per debiti, se non può pagare e il creditore lo richiede – è libero se trova i soldi. A ogni pena un riscatto, per ogni riscatto una cifra, con le associazioni caritatevoli che raccolgono i contributi “per liberare un condannato a morte”. “Manco li cani!”, dicono a Roma. E infatti un tempo (ora non più) qualcosa del genere valeva per i cani accalappiati per strada. Il loro destino dipendeva da un eventuale adozione che giungesse entro un certo termine.
Qui (“Il male non esiste”) Rasoulof aggredisce un altro uso, infame sopra ogni altro: quello di procedere alle esecuzioni nelle carceri, obbligando comuni soldati di leva, scelti d’imperio, a togliere al condannato lo sgabello sotto i piedi. Chi rifiuta, una volta uscito perde lavoro, casa e in genere tutto quanto dipende dallo Stato. Cioè tutto, in questa versione anarco-teocratica del maoismo delle guardie rosse. C’è chi si ribella e rischia il tutto per tutto. È la seconda storia, la più pazza, vitale e adrenalinica, conclusa con una sfrenata esecuzione di “Bella ciao” (ma, sorpresa!, non quella che conosciamo tutti, quella del fiore del partigiano, ma la versione femminista, da risaia, di Milva; l’avrebbe potuta cantare anche la Pausini se solo ci avesse pensato, mannaggia) C’è chi dice sì (la terza storia). C’è chi dice no (la quarta). Ma non sarà una passeggiata difendere la scelta nel tempo. La stessa miserabilità del premio per chi dice sì, una settimana di licenza (che non si credesse, il giovanotto, di aver fatto chissà che cosa), dà un’idea del valore attribuito alla vita umana. “Manco li cani”.
Gli orsi? Chi li ha visti?
”Gli orsi non esistono”, di Jafar Panahi, è un film da sostenere a spada tratta (come tutti quelli del regista persiano) adesso che il gioco si fa duro e Jafar il buono si trova in galera – condannato a sei anni nel clima delle grandi proteste che sconvolgono l’Iran – e svanisce l’ombra di lasca permissività che gli ha consentito finora di realizzare quei bellissimi film vietati nel suo paese, ma accolti con favore fuori. Va sostenuto, “Gli orsi non esistono”, perché è un film necessario: finestra sul mondo e testimonianza della coscienza artistica e politica di un meraviglioso intellettuale iraniano. E poi dove lo troviamo uno che, nella condizione di straniero in patria che gli è – gli era, ormai – imposta dal governo del suo paese, riesce a mantenere quella hemingwayana “grace under pressure” (e che pressione!) che in lui è ormai una concezione del mondo.
Da dieci anni Panahi è il protagonista dei film, che realizza in giro per il suo paese: in città (“Taxi Teheran”), in montagna (“Tre volti”), al confine turco (“Gli orsi non esistono”). Stavolta, con un computer e un’apparecchiatura elementare, dirige una piccola troupe oltre il confine turco (che gli è vietato oltrepassare) in una storia di passaporti falsi e di fughe impossibili, o rifiutate per amore, in cui vita e scena degli attori (ma sono davvero attori?) si mischiano e confondono. Mentre un’altra avventura che lo coinvolge personalmente (una sorta di arbitrato su una vicenda buffa e terribile di superstizioni tribali che agita maggiorenti e minorenti del posto) mette a rischio la tranquillità della sua presenza nel piccolo paese che lo ospita, per una denuncia alla “guardia rivoluzionaria” di chi si ritiene danneggiato dalla sua riluttanza a giurare.
Realizzato poco prima dell’arresto “Gli orsi non esistono” è il primo film di Panahi ad evoluzione tragica, ma anche prima dello scioglimento delle due storie un senso di minaccia più accentuato del solito scorre come un brivido sotto l’usuale cordialità con cui la sua gente, lo riconosce per strada, lo saluta, lo ospita e si intrattiene volentieri con lui. Non ci sono i fantastici campi lunghi di “Tre volti”. Tutto è più ristretto, fatto salvo qualche bel piano-sequenza nelle scene girate in Turchia. Eppure, “No bears” è un film che trasmette fiducia e forza morale. Questo timido ma irriducibile intellettuale persiano, conteso da tutti i grandi festival europei, rimane il più profondamente iraniano dei registi del suo paese. E nonostante ciò, con Asghar Farhadi, il più internazionale. I suoi film sono chiari, come i colori dei loro manifesti. Leggeri, come le macchine sempre più piccole che gli consentono di girarli nelle condizioni più proibitive. Lievi, perché coloro per cui pesante è la vita, le “guardie rivoluzionarie” di ogni regime ne sono tenuti fuori. Sono fuori campo.
I film di Panahi sono semplici, come “l’ardor del buono e lo splendor del vero“. Per voler bene al mondo ci vuole del coraggio. E lui ne ha da vendere.
Due amici, due diversi atteggiamenti.
Si può dunque cantare con il piede straniero sopra il cuore? Cantare no. Sostenerlo sarebbe indulgere all’atroce retorica del canto melodioso dell’uccellino a cui hanno cacciato gli occhi. Ma parlare sì. Si può e si deve. Solo bisogna sapere a chi si parla. Non si può parlare al vento. Si rischia che a vedere il tuo film, per quanto blasonato, siano solo quelli che l’hanno visto nelle proiezioni ad inviti. O ai festival. Dei due registi amici (12 anni li dividono: 62 Panahi, 50 Rasoulof) il primo sembra saperlo benissimo, il secondo meno.
“Il male non esiste” è l’ottavo film di Mohammad Rasoulof, il secondo ad arrivare in Italia dopo “L’isola di ferro” del 2005. Non l’avete visto? Non siete i soli. Incassò 1.700 euro. “There is no evil” è andato molto meglio: 103.000 euro, in Italia. (In USA 23.000 dollari, ma gli americani, si sa, hanno la coda di paglia e un film sulla pena di morte per loro è un dito in un occhio. Chiedere a Oliviero Toscani.) Non intendo essere sprezzante, ci mancherebbe, ma sono cifre che parlano di una differenza importante di atteggiamento fra Rasoulof e i suoi amici Farhadi e Panahi, beniamini di un ben più vasto pubblico internazionale oltre che – come lui – della critica e dei grandi festival. A chi si rivolge il cinquantenne regista iraniano? E soprattutto: se lo chiede?
Nessuno di noi sa se e quando i loro film potranno essere visti in patria. Quei film hanno un destinatario preciso, che non può essere, purtroppo l’Iran (a meno che le piattaforme non spostino di molto le cose, magari). Questo pubblico è costituito dall’Europa e dagli Stati Uniti. Forse da una parte dell’Asia, quella non islamica, diciamo. Il loro cinema è una Radio Teheran che parla, fondamentalmente, ad europei e americani. Un film contro la pena di morte esclude dal suo possibile pubblico quasi tutto ciò che non è Europa. Ma “Il male non esiste” non è il classico film contro la pena di morte che può trovare facile udienza in Europa, non precisamente. Non è un grido politico e umanitario, universale. Attraverso i suoi personaggi e la loro disperazione rivolge ad ognuno di noi una domanda angosciosa: “Cosa fareste voi, trovandovi in una situazione del genere?” Ma perché nascondersi dietro Antigone? Non lo so cosa farei e non mi importa di saperlo. Non mi importa neanche cosa farebbe Rasoulof. Quello che conta è come ribellarsi a un regime, non come tacitare la propria coscienza. Davanti a scelte come quella del film ognuno è solo sulla terra, senza neanche la trafittura di un raggio di sole. Dovremmo forse consolare quello che ha dato un calcio allo sgabello per passare una settimana con la fidanzata e portarle l’anello di fidanzamento? In un soprassalto di mestizia dovremmo dirgli: poverino, forse avremmo fatto così anche noi? Questo ci chiede Rasoulof?
“Il film è molto bello, appassionante, con attori belli e credibili, paesaggi meravigliosi, una serie di improvvise rivelazioni da thriller. Ma ci sarà un momento in cui avremo voglia di vedere un film il cui tema è la pena di morte?” Come sempre è Natalia Aspesi a centrare il cuore del problema. Ho visto “Il male non esiste” sei mesi fa e onestamente non ho avuto cuore di consigliarlo a qualcuno. Del resto, una settimana dopo l’uscita era già scomparso e chi s’è visto s’è visto. È vero: il film è bello. Ma dopo la tremenda conclusione del primo episodio (probabilmente il migliore) e quella felice del secondo nel segno di “Bella ciao”, il terzo e il quarto, belli e profondi quanto ti pare, ti lasciano un peso sul cuore che non ti lascia più. Si può consigliare a qualcuno un film dal quale esci con la voglia di pensare ad altro? Due giorni fa, “Il male non esiste” ha esordito su Ski. Per me vale, non c’è dubbio. Non garantisco però che alla fine avrete voglia di abbracciare il regista. (C’è anche chi vi ha visto un filo di speranza. Oddio, volendo…)
Meno male che Jafar (Panahi) c’è. Lui lo vede, e come!, il suo pubblico quando gira. Lo vede in ogni faccia che incontra, nell’amore disperato dei due amanti, nella faccia del “sindaco” che cerca di far ragionare quel folle e tenere insieme i fili di un’assurda superstizione che legano due esistenze, davanti all’intellettuale che viene da fuori e che, come in “Tre volti”, sembra un po’ il medico Carlo Levi a Gagliano (Aliano) con la maga. Ci pensa mentre ferma la macchina sul confine, mentre tutti gli dicono “scappa”. E tira il freno a mano. Andateci, a vedere “Gli orsi non esistono”. E aiutiamo i due prigionieri, anche quello che si macera troppo. A me ha fatto venire voglia di parlarne e di consigliarlo a tutti. I film di Panahi ti rimangono in cuore e ti cambiano.
Preparando questo pezzo ho rivisto “La ballata del boia”, l’esemplare, nerissima commedia di Luis Berlanga. Cinquant’anni ma non li dimostra. Spagnola ma con molto di italiano: produttore Ergas, sceneggiatori Rafael Azcona – quello dei migliori film di Ferreri – e Ennio Flaiano, protagonista Nino Manfredi. Anche questa consiglio a tutti (si trova facilmente su You Tube). Sperando che aiuti a capire il punto di vista che ho cercato di esprimere.