Il Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza (PNRR) che l’Italia si è impegnata a realizzare è un’impresa enorme che può essere paragonata a un vero e proprio piano Marshall sia sotto il profilo economico-finanziario (oltre 200 miliardi di euro in sei anni) che dalla composizione degli interventi previsti.
Tale piano comprende un pacchetto di 190 misure, 58 riforme e 132 progetti d’investimento, tutti attentamente calcolati e programmati. Finora il Consiglio dell’UE ha concesso all’Italia una tranche anticipata di pre-finanziamenti – 9 miliardi di euro in sovvenzioni e 15,9 miliardi di euro in prestiti alla quale si è aggiunta un’altra tranche di 11,5 miliardi di euro in sovvenzioni e 12,6 miliardi di euro in prestiti. Quindi è stato sborsato un totale di €20.5bn in sovvenzioni e €28.5bn in prestiti. Si tratta chiaramente di un frontloading di risorse, la cui componente in sovvenzioni rappresenta circa l’1.1% del Pil del 2019, cioè una cifra rilevante dal punto di vista macroeconomico.
Dopo un periodo relativamente agevole, il PNRR stenta a decollare e i progressi sono stati sin qui limitati. A fine marzo, la Commissione europea ha rinviato la sua valutazione preliminare per motivi sostanziali e quindi ritardato l’erogazione della prossima tranche di 19 miliardi di euro. Questa decisione sulla quota di finanziamento, che equivale circa al 10% dell’intero pacchetto non interverrà probabilmente prima di fine aprile. Si attendono, tuttavia, ulteriori difficoltà che saranno in gran parte inevitabili.
Allo stato attuale, la Commissione e il governo italiano devono affrontare tre nodi critici sui finanziamenti. Il primo riguarda il problema ben noto delle concessioni per i porti, che la Commissione vuole aprire ulteriormente alla concorrenza. Il secondo aspetto riguarda gli aspetti di teleriscaldamento urbano, mentre il terzo riguarda gli schemi di rigenerazione urbana. Parte del problema della rigenerazione urbana riguarda le controversie sull’uso dei fondi UE per la costruzione di due nuovi stadi di calcio.
In realtà, il problema tutto italiano ha delle radici più profonde che vanno oltre le aree critiche che sono attualmente oggetto di discussione. Un aspetto, cui il governo italiano ha posto nelle sedi politiche europee, è la relativa rigidità del dispositivo. La condizione per sbloccare i finanziamenti europei era che sarebbero stati limitati nel tempo, e questo ha anche circoscritto nel tempo gli obiettivi legati ai finanziamenti.
Sotto la presidenza Draghi, il governo italiano ha fatto notevoli sforzi per raggiungere questi obiettivi in tempo utile e per erogare anche i finanziamenti ai beneficiari finali. Alcuni di questi problemi sono di natura amministrativa, in parte legati alla scarsa capacità gestionale a livello regionale e locale, soprattutto nel Mezzogiorno, dove c’è l’imperativo di spendere una quota significativa di risorse. Anche se ci sono soluzioni che il governo centrale può gestire, ciò di per sé richiede capacità, quando il governo centrale deve gestire anche gli affari quotidiani. Altri problemi riguardano il difficile contesto macroeconomico (con una crescita più bassa e un’inflazione più elevata) nonché la carenza di competenze e di manodopera qualificata. Il governo vuole, quindi, prorogare le scadenze, cosa che la Commissione è semplicemente incapace di fare politicamente. Ciò significherebbe estendere la dotazione del piano al di là dell’arco temporale in cui si iscrive in concomitanza con il Quadro Finanziario Pluriennale. Nelle condizioni politiche attuali (specie in Germania e Olanda con delle coalizioni di governo instabili), non si intravedono delle possibilità concrete per andare oltre il quadro temporale stabilito nel luglio 2020.
Un altro aspetto strutturale è legato alle condizionalità del piano, e alle riforme adottate il che significa che un governo eletto sarà vincolato dalle decisioni del suo predecessore. Che questo non sia ciò che vuole il governo italiano è almeno in parte il motivo per cui questi problemi stanno emergendo. La sorpresa iniziale di quanto sia moderato il governo di Meloni potrebbe aver cullato gli osservatori esterni in un falso senso di sicurezza, o almeno nell’errata aspettativa che sarebbe stato tutto rimasto ‘business as usual’.
Né Giorgia Meloni né la Commissione europea hanno alcun interesse a far saltare il piano di ripresa per ritardi o dissensi sulle riforme e gli investimenti da effettuare. Tuttavia i ritardi nell’attuazione del piano hanno creato delle tensioni all’interno della coalizione di governo. Alcuni esponenti hanno proposto di rinunciare alla quota di prestiti invece di spendere le risorse in modo casuale. Per ora, la linea sembra essere quella di andare avanti col piano iniziale, magari con qualche modifica sulla struttura di governance del piano stesso.
Paolo Gentiloni, commissario europeo all’Economia, ha sostenuto che il successo del piano di ripresa dell’Italia era vitale per l’intero concetto di Eurobond. Anche se le cose non dovessero andare secondo quanto programmato, il PNRR è troppo grande per fallire (‘too big to fail’). Da questo punto di vista, la battaglia che l’Italia sta portando avanti col suo piano di ripresa tende a convalidare l’idea di un eurobond più strutturato e permanente. Tuttavia, i problemi dell’Italia derivano principalmente dal fatto che il piano deve essere realizzato entro dei limiti temporali molto stretti – soprattutto per operare dei cambiamenti strutturali nei sistemi amministrativi e giudiziari – e dal modo in cui i finanziamenti sono stati anticipati. Queste due cose insieme hanno reso più difficile per l’apparato governativo italiano assorbire i fondi e adattarsi alle esigenze del piano. Molti Stati membri dell’UE, compresa l’Italia, faticano ad erogare i fondi strutturali e di coesione, nonostante quei programmi siano in attività da lungo tempo.
L’idea stessa di una facility per la ripresa e la resilienza – varata quale risposta alla crisi pandemica e finanziato attraverso l’emissione di debito comune con garanzie degli Stati membri – come nucleo di un sistema di trasferimenti permanenti basati sul principio della solidarietà (e meno sul principio di sussidiarietà) deve essere messo alla prova dei fatti nonostante la feroce opposizione degli Stati nordici.
Se lo scenario peggiore dovesse accadere, cioè il fallimento del PNRR, ciò avrà gravi implicazioni non solo per l’Italia, ma per l’UE e il progetto di integrazione europea nel suo complesso.
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