1) Finlandia
Una prospettiva inconsueta da cui guardare alla guerra in Ucraina è quella che offre “Foglie al vento”, l’ultimo film di Aki Kaurismaki, limpido saggio di regia sul mondo dell’autore. Ovvero: cosa ti faccio con un uomo, una donna, un cane e tre ambienti sociali (un supermercato, una fabbrica e un pub), in una Helsinki operaia, socialmente deprivata. Licenziati – lei dal supermercato (ingiustamente), lui dalla fabbrica (per alcolismo) – si incontrano al pub (karaoke). Si conoscono al cinema (Jarmush: “I morti non muoiono”), chiacchierano su Bresson e Godard (sotto il manifesto di “Breve inontro”), si piacciono. Lei però ha perso il padre e un fratello per alcolismo, poi la madre per il dolore. A prendersene in casa un altro non ci pensa proprio. Lui reagisce orgogliosamente (“Non accetto imposizioni”), ma si iscrive agli alcolisti anonimi. Due mesi e le telefona: “sono asciutto come un topo del deserto”. “Bravo, vieni”. Ma un altro grande modello di Aki è Ken Loach, l’ultimo, per il quale le sfighe non sono mai abbastanza per i disgraziati, e crescono una sull’altra come un fungo sulla pelle. Il nostro eroe (si chiama Holappa) esce e finisce sotto un tram. Solo che Aki ha già dato con i finali disperati e da un po’ è entrato in modalità miracolo, a Le Havre come a Helsinki. Quindi non finirà così. Il cane che la sua bella (Ansa) ha adottato perché non finisse in un canile (in Finlandia i randagi finiscono come da noi quando c’erano gli accalappiacani) si chiama Chaplin. E sarà Charlot a dettare la conclusione, sulla strada verso casa: Ansa davanti a passo svelto con il suo trench da tenente Colombo, Holappa dietro a balzelloni con le stampelle, il canetto al piede, gagliardo, con la lingua di fuori. Que sera sera.
Dura poco più di un’ora “Foglie al vento”; una cosina che uno come Aki te la tira giù in un mese. Storia di brava gente e belle facce. Foglie d’autunno. Una Finlandia desolata e incattivita che in due anni di guerra al confine ha metabolizzato l’apprensione e un’isteria fredda: a qualunque ora del giorno e della notte la radio passa notizie dall’ Ucraina. Passa anche la voglia di accenderla, la radio. Tanta musica al pub, quella buffa di Kaurismaki. Mescolato a classici come “Le foglie morte” in versione finnica, un piccolo centone di canzoni di una tristezza paradossale prende la scena. Umorismo finlandese? Probabile. Anche se per qualcuna viene da chiedersi se l’autore c’è o ci fa. (Si scherza, siam burloni). Lo stile di ripresa è inconfondibile, lo riconosci alla prima inquadratura. Mancava da sei anni e cominciavamo a preoccuparci, anche se ormai è il suo passo. Ma questi cioccolatini, anche preziosi, li girava Manoel De Oliveira fra i 90 e i 104 anni, e dicevamo “che meraviglia!”. Era vero, ma Aki ne ha trenta di meno. Davvero è già il tempo delle “masterclass” di regia, di lavorare sugli interessi del capitale accumulato, come diceva di fare (e faceva, negli ultimi anni) Godard? Dai, che si può fare di più, come dice la canzone. Rivedremo le care meraviglie: “L’uomo senza passato”, “Miracolo a Le Havre”, “L’altro volto della speranza”?
2) Inghilterra
Muri, migrazioni e difficile integrazione dei migranti – meno presenti al cinema rispetto agli anni scorsi – impegnano altri due grandi autori europei, diversamente giovani: la polacca Agnieszka Holland e Ken Loach. La prima con “Green border”, premiato a Venezia, candidato agli Oscar ma non ancora uscito da noi, sulla tragedia dei migranti respinti e lasciati morire in un rimpallo di responsabilità alla frontiera Polonia-Bielorussia. Il secondo con “The old oak” (nome del pub al centro della vicenda), che ambienta in una contea post-mineraria del Nord Est inglese una storia di contrasti fra la popolazione locale e un gruppo di immigrati. Difficile rappresentare oggi il rimpianto di una piccola comunità per la perdita della propria identità mineraria – con la sua vita agra, i suoi morti e il suo dolore – che la solidarietà di classe riempiva di orgoglio sociale, in un tempo di ispide individualità minimo borghesi, in cui il nemico è qualcuno che sta peggio di te e il primo e più antico centro sociale è il pub. I giovani se ne vanno, i meno giovani lamentano la diminuzione del valore delle case per l’ingresso di nuovi abitanti con le loro attività straniere, e quando da un pullman al centro del paese scende un nutrito gruppo di esuli siriani, guidato da un’intraprendente interprete di nome Yara, ad accoglierli trova la furia ostile degli abitanti. Alla prova di un mondo dove il lavoro – quando c’è – conta sempre meno, le grandi aggregazioni sociali mancano o si sfarinano (perfino il pub), la solidarietà si fa ipotetica e il mitico internazionalismo torna quella favola che è sempre stato, non resta, al grande regista inglese che fare appello al suo radicale umanesimo anglo-trotzkista. La cattiveria produce disastri e la coscienza del disastro arriva, purtroppo in ritardo, dove non arrivava la ragione. Il finale è commovente, ma non è da meno il dialogo a ciglio asciutto nella cattedrale fra T. J. (il padrone del pub, protagonista del film) e Yara, dove la ragazza, incantata davanti a tanta bellezza, pensa a quanto lavoro e amore e storia di generazioni vi si trovino raccolti. E pensa al disgraziato paese da cui viene, in cui l’infamia di un potente e l’iconoclastia dei suoi oppositori riduce in cenere e sassi ogni traccia del passato, lasciando a chi verrà la tabula rasa di una perpetua guerra di scimmie assassine.
3) Romania
Tratta lo stesso tema, meglio ancora dell’anziano maestro, il cinquantacinquenne rumeno Cristian Mungiu, in quello che probabilmente è il film più bello dell’anno: “Animali selvatici”, girato in Transilvania, una regione a maggioranza linguistica magiara dove diverse etnie – ebraica, rumena e rom -trovano una difficile composizione. Film assolutamente da vedere, quando arriverà sulle piattaforme. Di un umanesimo più saldo di quello del maestro inglese, “Animali selvatici” non è solo un grandissimo film, ma il riferimento irrinunciabile per qualunque elaborazione personale del tema. A patto di non chiamarsene fuori, perché riguarda davvero tutti. Il suo relativo insuccesso merita un appello particolare.
In un paese di questa regione ai confini con l’Ungheria torna un giorno Matthias, che se m’era allontanato per impiegarsi in un mattatoio in Germania. E’ ricercato dalla polizia tedesca per avere quasi ammazzato un compagno che lo aveva chiamato “zingaro”. Insulto sanguinosissimo, pare, per un rumeno, specie se transilvano. Al paese, la madre di suo figlio, un bambino sensibile e spaventato – secondo lui per un’educazione poco virile (troppe donne intorno) – dirige un panificio industriale che fatica a trovare dipendenti. Nell’ambito di un programma europeo per l’inserimento degli immigrati regolari nel tessuto produttivo dell’Unione, il panificio ha assunto, alle condizioni favorevoli del bando, tre operai cingalesi; scatenando un’autentica guerra nella popolazione locale contro quei tre disgraziati, cui dovrà trovare un alloggio presso di sé. Mungiu (Palma d’Oro nel 2007 per ”4 mesi, 3 settimane e 2 giorni” e nel 2016 per la regia del bellissimo “Un padre, una figlia”) non fa le cose semplici. La direttrice del panificio, che affronterà con coraggio e rischio personale la battaglia per l’accoglienza e la sicurezza dei tre poveretti, non solo nel paese ma anche col padre di suo figlio, ha un vantaggio economico nell’assumerli: li paga qualcosa di meno. Ma a parte il nessun interesse dei paesani per quei posti, le ragioni dell’avversione coprono l’intero ambito dei pregiudizi più assurdi del razzismo sociale. La decisione verrà presa in una lunga assemblea convocata dal sindaco e dalla donna stessa nella chiesa del paese, in cui anche il parroco si chiamerà fuori. Questa riunione, risolta in un unico stupendo piano sequenza di quasi mezz’ora, è il centro del film e chiunque abbia a cuore il tema può trovarvi la radiografia più lucida, onesta e appassionata (il titolo originale del film è “R.V.M.”, la sigla della risonanza magnetica in rumeno), del dramma che sta scuotendo l’Europa. C’è molto altro in questo film straordinario: il dramma familiare di una donna, di un bambino e di un nonno; e il cuore nero – visto da uno dei suoi figli – di quella parte dell’Europa in cui più palese e doloroso è il fallimento del socialismo reale. Sinistra parodia che riconsegna oggi all’Europa la sua parte più irriducibilmente reazionaria.
CORSO FRANCIA
4) Mai come quest’anno, in Europa, il cinema francese ha dato le cose migliori. Su tutte il maggiore successo lo ha riscosso “Anatomia di una caduta” di Justine Triet, vincitore su ogni tavolo: Cannes, Oscar Europei, Golden Globe. Un uomo è caduto dal balcone del suo chalet in una Savoia innevata. La moglie, unica presente in casa, che neanche se n’era accorta, è accusata del delitto e cercherà di discolparsi ipotizzando un suicidio. Sembra un film processuale, ma il processo che ne prende più di metà, chiamato a scegliere fra due ipotesi entrambe implausibili, è abbastanza singolare. Con un pubblico ministero che fa quel che gli pare, un avvocato difensore intimidito e una giudice che sembra pensare: “fate un po’ voi, tanto alla fine decido io”. “Anatomia di una caduta” è altro: un trattato finissimo e spietato sulle strategie di sopraffazione interne alla coppia. Niente su cui un dibattimento possa deliberare perché la contesa è fra due cuori, due culture, due strutture nervose. “Anatomia di una caduta” mette in scena un caso di scuola femminista che vede l’uomo soccombere. Anche fisicamente, ma non per un crimine; né, plausibilmente, per un atto volontario. La sua fine, per atto d’imperio dell’autrice, sancisce una sconfitta. La lotta combattuta sul ring di quel matrimonio è di quelle che possono durare una vita o interrompersi per riprendere con altri sfidanti. Ma un film deve pur finire. Quell’inspiegabile caduta è un po’ come il tie break nel tennis: l’espediente di quando ci si è stufati di set che finivano 21 a 19 e si è stabilito di chiuderla lì una volta arrivati 6 a 6. Teso e potente, “Anatomia di una caduta” è ammirevole per tante cose: per l’attenzione al pubblico durante le fasi del processo; per l’impegno degli attori: marito moglie e il bambino, con la sua un po’ misteriosa infermità; per il paesaggio della Savoia e l’architettura degli ambienti.
5 e 6) Stessa altitudine (siamo in montagna), anzi persino superiore se non sbaglia il mio altimetro. In un’aria finissima di capolavoro troviamo un’altra meraviglia francese: “La notte del 12”, di Dominik Moll, stupendo noir, così diverso da quelli americani, a cui appartiene l’immagine di testa dell’articolo: quella della venticinquenne parigina Lula Cotton-Frapier. Trionfatore agli ultimi César (i David di Donatello francesi) e completamente ignorato agli Oscar Europei, “La nuit du 12” contende ad “Animali selvatici” la mia personale palma di miglior film del 2023 (anno d’uscita italiano: entrambi sono del ’22). Per la migliore commedia non c’è gara (“Mon crime” sbaraglia tutti).
Stessa valle della Savoia. A pochi chilometri dallo chalet dove si consuma il dramma anatomizzata da Justine Triet, una bella ragazza bionda viene bruciata viva per strada, senza apparenti motivi, da un uomo mascherato, mentre torna a casa da una notte di festa. Sarà uno dei numerosi casi irrisolti del panorama giudiziario francese (il 20% di quelli denunciati, dice una didascalia iniziale). L’indagine segue il corso di migliaia di altre analoghe, partendo dalle frequentazioni di Clara (la ragazza). Come sempre ci sono le false piste, i personaggi odiosi che però non c’entrano, un investigatore che non si rassegna e da un certo punto in avanti una giudice che riapre il caso, con lo stesso esito. E’ la straordinaria Anouk Grinberg, madre del protagonista nel contemporaneo e delizioso “L’innocente” di Louis Garrel.
L’anno prima era stato “L’accusa” (“Les choses humaines”), di Yvan Attal, oggi su Raiplay – un grande film su un processo per stupro – a parlare, al di là della soluzione giudiziaria in qualche modo raggiunta, di una verità chimerica, irraggiungibile anche per i due ragazzi che ne avranno la vita distrutta. Una verità che non sarà mai la stessa per entrambi. Tre film (“L’accusa”, “Anatomia di una caduta” e “La notte del 12”) belli e necessari sull’importanza di accettare l’esistenza del “non so”, del “forse non sapremo mai” nelle nostre vite, anche quando quel peso è più doloroso. E’ difficile al cinema fare passare la mancanza di una soluzione, proprio perché è la norma nella vita: infatti “L’accusa” e “La notte del 12” da noi hanno incassato quattro spicci. Ed è facile ritrarsi davanti al fantasma dello scacco per chi sogna celle, chiavi da buttare, patiboli (perché no?). Verità ufficiali e incontrovertibili. Sempre e comunque.
Le commedie.
Nessuna cinematografia come quella francese ha tenuto alta quest’anno l’insegna della commedia. Ne segnalo quattro, imperdibili per chi ami il genere (ma chi può dire di non amarlo?).
7) La prima, l’unica a toccare il milione di incassi anche da noi, è “Mon crime – La colpevole sono io”, di François Ozon. Terza versione cinematografica di una pièce del 1934, è il più smagliante dei ritorni, in salsa europea, della grande “commedia svitata” (Screwball Comedy) americana degli anni quaranta e cinquanta. Vi si cita “Amore che redime” il primo film di Billy Wilder (le due protagoniste vanno al cinema a vederlo), omaggio a uno dei grandissimi il cui spirito risplende in questo gioiello da cineteca: Howard Hawks, George Cukor, Preston Sturges.
Due protagoniste giovani, belle e poco note, con intorno un coro patrocinante di grandi: Isabelle Huppert, Fabrice Luchini, Danny Boon, André Dussolier. “Mon crime” è l’esilarante versione parodistica dei serissimi film di cui si diceva sopra. Anche qui c’è un delitto, quello di un produttore porcellone, Weinstein in sedicesimo, di cui non conosceremo mai l’autore, ma per eccesso di rivendicazioni: una nobile gara di attrici che l’hanno conosciuto ad intestarsi la responsabilità del delitto per solidarietà con l’ignoto assassino. Dovranno mettersi d’accordo e ne nascerà una commedia nella commedia. Applauditissima. “Ho il sospetto di non avere più così chiaro il confine fra il bene e il male”, dirà uno dei personaggi. Vietatissimo alzarsi ai titoli di coda. Peggio per chi lo fa.
8) La seconda è “L’innocente”, di Louis Garrel, figlio d’arte scoperto da Bertolucci, amico del padre, che ne fece il protagonista di “The Dreamers” (in sala, restaurato, in questi giorni). Impegnatissimo come attore, anche un po’ oltre i meriti, sta diventando davvero bravo come regista. Commedia nata in un carcere, comincia con un matrimonio in prigione, finisce con un altro matrimonio in prigione. Bravi tutti, ma con Anouk Grinberg (nella foto) non sono equanime.
9) La terza è “Una relazione passeggera”, di Emmanuel Mouret, squisitissimo saggio di arte dialogica in una commedia di relazioni “fluide”. Protagonisti il simpatico barbuto Vincent Macaigne e la slavata Sandrine Kimberlain, un uomo sposato e una donna single che instaurano una relazione esclusivamente sessuale, nei propositi. Poi si sa come vanno queste cose. Questa prenderà una piega più singolare. Due bellezze molto particolari con cui è facile empatizzare.
10) La quarta meriterebbe qualche parola in più, ma è già su Raiplay e quello di vederlo è un consiglio da amico. Si chiama “Passeggeri della notte”, di Mikhael Hers, protagonista, come in “L’accusa”, Charlotte Gainsburg. Ma la venticinquenne Noée Abita si impone con un ruolo bellissimo che ricorda la vagabonda Sandrine Bonnaire in “Senza tetto né legge” di Agnes Varda. Il tocco è un po’ più leggero, ma il film è davvero un bel film. Vi piacerà.
Per tutti e dieci, si attendono riscontri. E buona visione.