Statuto delle Nazioni Unite

Emanato a San Francisco il 26 giugno 1945

Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grande e piccole, a creare le condizioni in cui la giustizia ed il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altre fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti,(…..)

Capitolo V: Consiglio di sicurezza

Art. 23

Composizione (1) Il Consiglio di Sicurezza si compone di quindici Membri delle Nazioni Unite di cui la Repubblica di Cina, la Francia, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il Regno Unito di Gran Bretagna e l’Irlanda Settentrionale e gli Stati Uniti d’America sono i Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. (…..)

Art. 24 Funzioni e Poteri

  • Al fine di assicurare un’azione pronta ed efficace da parte delle Nazioni Unite, i Membri conferiscono al Consiglio di Sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, e riconoscono che il Consiglio di Sicurezza, nell’adempiere i suoi compiti inerenti a tale responsabilità, agisce in loro nome. (……)

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Leggendo gli articoli di questi trattati emerge chiaramente che c’è un serio problema di conoscenza e di uso della lingua, sia a livello nazionale che internazionale. Urge una riflessione comune per ridare il significato proprio a tutte quelle parole che in questi anni, ne sono state private dal comportamento dei responsabili delle varie istituzioni di governo, nazionali e internazionali, e dalla loro mancata divulgazione all’intera popolazione attraverso la scuola.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Com’è possibile che uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, si permetta di invadere uno Stato sovrano? E oltretutto lo fa in nome delle nazioni firmatarie del trattato. Questo vuol dire che le parole che descrivono le finalità di questi patti sono solo simboli che non hanno più alcun significato, perché nel tempo si è data priorità ad altri valori, come quelli economici e commerciali, anziché mantenere la priorità dei diritti umani e dei valori democratici degli Stati. Non ci si è preoccupati di rinnovare i membri del consiglio di sicurezza alla caduta dell’URSS né di ricomporlo quando, all’interno degli Stati, non si rispettano i diritti umani come per esempio accade in Cina.

Questa immobilità del Consiglio poteva essere tollerata durante la Guerra fredda per mantenere un equilibrio e non dare adito a un nuovo conflitto. Ma dal novembre dell’89, dopo la caduta del muro, questo immobilismo non è più giustificato; è stato questo comportamento che ha tolto il significato e il valore alle parole del Trattato Internazionale.

Altrettanto grave è la passività del mondo culturale che non ha svolto il compito sociale e democratico di aprire un dibattito pubblico per chiarire e definire che cosa significhino le parole: democrazia, repubblica, politica, burocrazia e che funzione abbiano per lo stato italiano la Costituzione, i Partiti, e le elezioni. Non si è nemmeno ribellato alla cancellazione della disciplina dell’educazione civica dalla scuola media e superiore, come al solito per questioni economiche e per assecondare chi denigrava la scuola italiana come arretrata.

Lo stesso mondo culturale non ha definito quali siano le prerogative irrinunciabili per uno Stato democratico affinché possa agire come tale, cioè la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Questo mancato dibattito mostra ora le sue conseguenze con le proposte di riforma costituzionale detta del premierato e dell’autonomia differenziata delle Regioni che vengono avanzate dall’attuale governo di destra e che mettono a rischio la nostra repubblica parlamentare, le istituzioni democratiche e l’Italia come stato unitario.

È stato possibile presentare questa proposta di riforma perché c’è ignoranza sulle caratteristiche e prerogative delle nostre Istituzioni Statali. Molti ignorano cosa significhi “democrazia parlamentare”. Roberto Benigni aveva visto l’inizio di questo fenomeno, perciò aveva organizzato il suo progetto di spettacolo sulla Costituzione, suggerendo in questo modo alla RAI come fare vero servizio pubblico. Suggerimento che si sono guardati bene dal raccogliere, anche, forse, per non offuscare il concorrente Fininvest di proprietà di un Primo Ministro.

Come si fa a parlare di democrazia definendola, come ha fatto il Primo Ministro di uno stato europeo, come “illiberale”? Come definire democrazia quella dell’India, la cui società è ancora divisa in caste o quella degli Stati Uniti dove, per esempio, la qualità dell’istruzione non è garantita a tutti in egual misura, così come la salute? È urgente definire cos’è la democrazia e cosa è irrinunciabile perché sia un fondamento riconosciuto e riconoscibile.

La democrazia non si esaurisce nel rapporto tra maggioranza e minoranza e nella dialettica tra governo e opposizione. La democrazia è un sistema di istituzioni e servizi che permettono a ogni singolo cittadino di avere uguali diritti e opportunità perché possa esercitare la personale libertà in una società altrettanto libera. Questo sistema è definito nella prima parte della nostra Costituzione.

Alcuni Stati della presunta Unione Europea stanno iniziando a sviluppare questa realtà, ma sono appena agli inizi, perché la libertà è la cosa più difficile da vivere e da condividere. È difficile perché, essendo un valore assoluto, non può avere limiti e quindi l’unico elemento che garantisce la possibilità della sua realizzazione è che ciascuno si riconosca membro insostituibile di una comune umanità. È difficile perché è necessaria la piena consapevolezza di far parte di un comune progetto di convivenza a cui tutti partecipano. Quindi lo strumento principe per la democrazia è l’educazione alla libertà.

È necessario fornire gli strumenti di conoscenza per dare consapevolezza al cittadino riguardo alle scelte che compie, a partire dal voto. Da qui il ruolo fondamentale della scuola pubblica che deve essere garantita uguale per tutti. Non è un caso che il primo intervento per cambiare la costituzione italiana è stato proprio quello di svalutare la scuola pubblica a favore di quella privata contravvenendo all’indicazione specifica della costituzione che all’articolo 33 diceva che le scuole private non devono costituire un onere per lo stato. Il fatto che questa azione sia stata propagandata proprio come misura democratica dimostra come, spesso, le parole siano usate per influenzare o, meglio, manipolare, l’opinione pubblica.

Foto di WOKANDAPIX da Pixabay

E qui emerge il secondo grande responsabile in ambito culturale: il mondo dell’informazione che sia per interessi commerciali sia per pigrizia e forse anche per ignoranza e malafede, per descrivere alcuni concetti, fenomeni e avvenimenti usa termini di diverso significato come se fossero sinonimi; per esempio chiama consumatori i cittadini, clienti invece che passeggeri gli utenti delle ferrovie preparando il cambiamento della privatizzazione delle Ferrovie dello Stato senza dirlo esplicitamente, con una campagna pubblicitaria che non ha mai parlato di privatizzazione. Così la scuola ha chiamato Dirigente scolastico il Preside, facendo intendere che la scuola non sia un servizio ma un’azienda, e ha definito quello che dovrebbe essere il piano pedagogico ed educativo il POF: Piano di Offerta Formativa, come se la cultura fosse un prodotto da vendere. Così i professori non sono stati più inquadrati a ruolo ma secondo il contratto di pagamento a tempo indeterminato come impiegati aziendali; tutto questo non è stato mai detto in maniera esplicita ma presentato come dato di fatto, col silenzio dei sindacati e confidando nell’ignoranza della popolazione assuefatta a una costante informazione superficiale e approssimativa.

E adesso la proposta di riforma costituzionale spacciata come occasione per dare agli italiani la possibilità di scegliere direttamente da chi vogliono essere governati come i cittadini statunitensi, quando questo non è vero perché negli USA i candidati che saranno oggetto di votazione per diventare Premier sono il risultato di quattro livelli di selezione a partire dalle votazioni per eleggere i governatori di ciascuno Stato.

Chiamare Premier il Presidente del Consiglio o Governatore il Presidente delle Regione, allude a forme di governo che non hanno niente a che fare con la nostra forma istituzionale di repubblica parlamentare. Il premier appartiene alla realtà del governo federale degli Stati Uniti d’America, che è una repubblica presidenziale, come quella francese. Il Presidente del Consiglio italiano, invece, è indicato dal Presidente della Repubblica che lo sceglie tra i parlamentari eletti durante le votazioni e che lo presenta al Parlamento, vero rappresentante del popolo, il quale con un voto lo accetta o lo respinge. Si chiama Presidente del Consiglio dei Ministri perché sceglierà poi i ministri che comporranno il governo e questo lo fa consultando il Parlamento, il quale alla fine potrà confermarli. Per questo la nostra è una Repubblica Parlamentare proprio perché il Parlamento rappresenta il potere legislativo, sceglie il governo e può anche farlo decadere.

Purtroppo, in questi ultimi anni i governi hanno abusato dei Decreti-legge, che sono previsti solo come strumento di emergenza, trasformando l’eccezione in una normalità, cosa molto grave perché esclude il ruolo legislativo del parlamento.

Significativo e indicativo dell’ignoranza della qualità della nostra Repubblica Parlamentare è stato il successo del Referendum che ha dimezzato i membri del Parlamento, diretti rappresentanti della volontà popolare, argomentando questa scelta come soluzione per non sprecare i soldi dei cittadini, come se il lavoro di chi cerca di trasformare in leggi le istanze della popolazione, fosse inutile spreco di tempo e denaro.

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Altra cosa negativa che indica la piaggeria dei mezzi di informazione verso la cultura anglosassone, più pragmatica e mirata maggiormente alla funzionalità dell’agire quotidiano e poco adatta all’astrazione, è il cessato uso del congiuntivo che è il modo verbale che permette di descrivere un futuro immaginabile, funzione propria della nostra lingua e delle sue strutture sintattiche. Tutte queste superficialità, ambiguità e approssimazioni predispongono e abituano la mente di chi ascolta a cambiare il significato delle parole e i concetti senza averne piena coscienza, oltre a mostrare la scarsa conoscenza, rispetto e valutazione che i protagonisti dell’informazione hanno dello strumento principe che devono usare: la lingua italiana. Questo tipo di modalità dei mezzi di informazione ha fatto accumulare così tante insufficienze storiche che oggi risulta quasi impossibile trovare il bandolo di questa matassa per permetterci di uscire da questa confusione comunicativa che riguarda direttamente la possibilità di progettare un futuro.

Alcuni professionisti dell’informazione sembrano considerare il popolo circuibile con giochetti linguistici, come se non facessero parte anche loro della stessa nazione italiana, come se il mondo dell’informazione fosse una realtà separata dal resto della popolazione, come se non appartenessero all’Italia, all’Europa, all’Occidente Democratico e al Mondo.

Un capitolo a parte merita, poi, l’uso dilagante di termini ed espressioni stranieri per definire cose e concetti che sono più che definibili con la nostra lingua. Questo atteggiamento servile e rinunciatario è un pretestuoso e offensivo uso improprio e culturalmente impoverito dell’espressione dei concetti, come se la lingua italiana fosse inadeguata a descrivere situazioni moderne o complesse.

È urgente ritornare per chi lavora nei servizi di informazione pubblica all’obbligo di un uso corretto e completo della lingua italiana sia nella dizione che nella sintassi. Perché è rispettando la lingua nella sua compiutezza che si fa vero sevizio pubblico di informazione e ci si rende credibili.

Inoltre, è altrettanto urgente formare i quadri amministrativi alla cultura e al comportamento democratico nel servizio pubblico, perché diventi cultura comune che i cittadini non sono sudditi ma sono il motivo per cui esistono i servizi.  Questi non sono benevole concessioni elargite a coloro che se le meritano ma sono pubbliche strutture che fanno di un popolo una democrazia.

Bisogna ridare valore alle parole e al loro significato e considerare che la cultura e l’informazione sono strumenti irrinunciabili per la realizzazione di una vera democrazia, che è la forma di civiltà che non solo riconosce l’essere umano come valore, ma soprattutto costruisce la convivenza pacifica, cosa della quale sentiamo di questi tempi tanto il bisogno per dare alla vita la qualità che la rende degna di essere vissuta: la libertà.

 

P.S. Suggerirei il libro “Even. Pietruzza della memoria” di Adriana Muncinelli come libro di testo del primo anno delle scuole superiori perché mostra come i mezzi di informazione hanno educato gli italiani ad accettare senza ribellarsi le leggi razziali del fascismo.

Immagine di apertura: Jan Miense Molenaer, pubblico dominio, via Wikimedia Commons