L’India è tornata a votare per la 18ma volta dalla sua Indipendenza, nel 1947.
La più grande democrazia del mondo si è rimessa in moto un’altra volta, come ogni 5 anni, per compiere questo fondamentale, quanto straordinario, esercizio di democrazia e di partecipazione popolare alla definizione del suo destino.
I 970 milioni di elettori iscritti nei registri dei votanti hanno cominciato a votare il 19 aprile scorso e continueranno ad affluire, fino al 1° giugno, agli oltre 1 milione di seggi per rinnovare la Camera Bassa (Lok Sabha) del Parlamento indiano, eleggendo 543 deputati, in rappresentanza dei 28 Stati e degli 8 Territori che compongono l’Unione indiana.
Ad ormai pochi giorni dalla conclusione di questa “maratona elettorale” cresce l’attenzione internazionale per l’esito di un voto che molti ritengono “esistenziale” per il futuro di questo immenso Paese.
In effetti, la posta in gioco è particolarmente significativa per l’India stessa, quanto per l’Asia ed il mondo più in generale.
Se la assai probabile terza vittoria elettorale di Narendra Modi e del suo partito, il BJP (Bharatiya Janata Party), in carica dal 2014, è data per scontata, la dimensione del suo successo è considerato l’aspetto cruciale di queste elezioni.
In caso di vittoria con ampio margine, raggiungendo i 400 seggi, il Premier Modi e la sua coalizione di governo sarebbero infatti in condizione di modificare la Carta Costituzionale dell’India in senso più autoritario e ideologicamente ispirato al nazionalismo Hindu, professato dal suo partito e indicato come carattere fondativo dell’intero sub-continente indiano, prescindendo da quell’equilibrio tra le mille diversità religiose e culturali fin qui costituzionalmente garantito ed alla base della stabilità interna e dello sviluppo dell’India dalla sua indipendenza.
Inoltre, sul piano internazionale, un terzo quinquennio di governo di Narendra Modi potrebbe con ogni probabilità rafforzare la tendenza già in atto nel passato decennio a proporre una politica estera più assertiva e, se del caso, disposta a discostarsi dai canoni e dai valori sanciti dalla Comunità internazionale, o indulgere in prove di forza poco consone alla sua invocata missione civilizzatrice ispirata alla dottrina Hindu.
La vocazione dell’India ad essere riconosciuta come una nuova “super-potenza” rimane l’obiettivo di ogni Governo indiano che si rispetti ed ha trovato e trova convinto incoraggiamento a livello internazionale. Ma, se New Delhi dovesse optare per uno Stato dottrinario e “nazional-hinduista” potrebbe vedere rapidamente scemare questi sentimenti insieme alla conseguente cooperazione a tutto campo di cui beneficia da parte occidentale, in quanto partner strategico per eccellenza nel turbolento quadrante sud-asiatico.
Ma cosa ha fatto Modi nell’ultimo decennio di governo per meritare le diffuse critiche di autorevoli media mentre suscita grandi entusiasmi in patria?
E’ indubbio che Narendra Modi, centralizzatore e infaticabile lavoratore, con il suo carisma e capacità di leadership, dando prova allo stesso tempo di cautela e di scaltrezza politica, ha saputo conquistare assai ampi consensi, a livello nazionale (dove è oggetto di culto della personalità) ed internazionale.
La sua probabile conferma come Primo Ministro lo porrebbe, per livelli di popolarità e di longevità di governo, al pari di due personalità di assoluto spicco della recente storia politica dell’India, come Jawaharlal Nehru, “Padre fondatore” dell’India moderna, e Indira Gandhi.
A Modi è inoltre riconosciuto il merito di aver rilanciato e mantenuto l’economia indiana (la quinta su scala mondiale) su di una traiettoria di crescita sostenuta, al di sopra del 6 per cento del PIL, con un deficit fiscale in calo e il debito pubblico sceso all’83 per cento del PIL, pur a fronte di una maggiore spesa pubblica destinata alla realizzazione di infrastrutture per promuovere crescita e competitività.
Certo, tale crescita non è stata inclusiva: anche se la quota di popolazione in condizioni di estrema povertà è stata ridotta alla metà rispetto al 2011, i consumi restano ineguali, con l’indice Gini fisso a quota 35, ma crescenti quelli privati delle classi di reddito più alte, contrapposti ad un elevato tasso di disoccupazione e di malnutrizione infantile (67 per cento fino ai 5 anni di età), crescita moderata dell’occupazione, stagnazione dei salari e scarsa partecipazione delle donne, sullo sfondo di una grave, se non drammatica, situazione ambientale (l’India nel 2022 è stata classificata 180ma su 180 Paesi dall’Environmental Performance Index).
Sono questi ultimi i dati che fanno dire all’opposizione che Modi ed il BJP favoriscono le elites castali e degli affari a lui fedeli, mentre a chi osa criticare il messianismo hinduista del Governo Modi è riservato il “pugno di ferro” della legge.
Così, si sono andate intensificando in tutto il Paese preoccupanti iniziative normative e azioni intimidatorie o palesemente persecutorie da parte dei vari organi di sicurezza nei riguardi di esponenti politici, anche di spicco (come lo stesso Rahul Gandhi accusato di diffamazione), nonché di giornalisti, intellettuali, ONG internazionali ed indiane (Amnesty International e tante altre hanno lasciato l’India).
Soprattutto, la comunità mussulmana, forte di oltre 200 milioni di persone, è stata ed è oggetto di discriminazione e di minacce sistematiche (rivolte anche ai convertiti cristiani), e si sono accesi feroci scontri tra gruppi etnico-religiosi nello Stato di Manipur, nel nord-est del Paese (con migliaia di morti e la distruzione di Chiese, Templi ed interi villaggi), mentre i media nazionali tacciono, in quanto “allineati” o controllati dall’alto.
Sono proprio queste spregiudicate manifestazioni di autorità con motivazioni di carattere populistico (lotta alla corruzione) o nazional-religioso che suscitano diffusa preoccupazione dentro e fuori dell’India, soprattutto se Modi dovesse riuscire ad ottenere anche solo 30 seggi in più nella Camera Bassa e 42 in quella Alta (Rajya Sabha), rispetto a quelli controllati dalla sua attuale coalizione.
In tal caso, Modi sarebbe infatti in grado di cambiare la Costituzione (con il voto favorevole dei 2/3 delle due Camere), alterando così il suo spirito secolare ed egualitario per piegarlo alla visione nazional-hinduista (Hindi, Hindu, Hindustan) di cui lui e tutti i suoi seguaci sono convinti assertori, riconoscendo agli appartenenti alla religione hinduista il primato assoluto su ogni altro cittadino indiano di diverso credo religioso.
D’altra parte, è un fatto incontestabile che Modi abbia confortato l’orgoglio degli indiani riaffermando le loro radici hinduiste, favorendo la “decolonizzazione delle menti”: la sua pubblica narrazione di grande successo, afferma che gli Hindu hanno sofferto 1.200 anni di servitù prima perché sottoposti a governanti Mussulmani, la Dinastia Moghul, poi Cristiani, gli Inglesi, e che ora spetta a lui stesso restaurare il controllo degli Hindu sulla terra che loro appartiene.
A contrastare questa visionaria e potenzialmente totalizzante visione dell’India del futuro è però la ricomparsa sulla scena politica di una opposizione più agguerrita e organizzata rispetto al passato, che si è data il compito di togliere certezza alle trionfalistiche previsioni di vittoria dei seguaci di Narendra Modi.
In effetti, questa volta, l’opposizione, al contrario del 2019, si presenta più unita e combattiva, anche se priva di argomenti emotivi o culturali che possano davvero contrastare l’enfasi hinduista sbandierata da Modi.
Reduce dalle brucianti sconfitte del 2014 e del 2019, il Partito del Congresso, è ancora guidato da un Rahul Gandhi che ha saputo rafforzare il suo profilo di leader politico, fin qui debole, ed ha dimostrato di voler rilanciarsi andando incontro ed alla ricerca di quelle masse popolari che per decenni avevano sostenuto questo glorioso Partito.
In puro “stile Gandhiano”, Rahul ha infatti svolto una coraggiosa campagna elettorale che lo ha portato e percorrere oltre tremila chilometri nell’India rurale, rinnovando un dialogo più attento rispetto al passato alle istanze fondamentali della gente comune dei villaggi e delle lontane quanto popolose province dell’India profonda.
E’ questo ritrovato Partito del Congresso che si è messo alla testa di una coalizione di ben 28 Partiti minori (alcuni forti regionalmente, altri con consistenti basi elettorali nelle rispettive caste) e che ha significativamente scelto come acronimo quello di INDIA (Indian National Development Inclusive Alliance).
Riusciranno il Congresso e la sua composita coalizione a mitigare significativamente questa previsione di scontata vittoria elettorale di Modi e del suo BJP?
In effetti, l’esito del voto potrebbe favorire il Congresso in Stati importanti e popolosi come il Kerala, il Punjab, il Tamil Nadu, Telangana, il West Bengala o il Kashmir, nessuno dei quali governato dal BJP, e dove forti sono gli elementi identitari locali, quali lingua, religione e tradizioni: in tal modo potrebbe, in parte almeno, bilanciare il voto, orientato invece a favore del BJP, degli Stati dell’India settentrionale e centrale (che, più popolosi, hanno però maggior numero di seggi nella Lok Sabha).
Nel dibattito pre-elettorale i temi della politica estera sono rimasti sullo sfondo, comunque illuminato dalle accoglienze molto calorose riservate al Primo Ministro Modi in tutte le Capitali da lui visitate: da Washington a Parigi, passando per Canberra, Cairo, Atene, Tokyo, Pretoria ed altre.
Modi ha saputo muoversi con abilità nel rafforzare le relazioni già di carattere strategico con gli Stati Uniti (che vedono l’India come importante contrappeso ad una Cina arrembante nell’area asiatica), nel trattare con cautela con la Cina, vicino ingombrante ma partner economico irrinunciabile, ed a mantenere buoni rapporti con Mosca, in nome di una antica amicizia che neppure la violazione del sacrosanto, anche per New Delhi, principio di nazionalità, con l’invasione dell’Ucraina, ha messo in discussione.
La stella polare dell’India rimane infatti l’assurgere a “potenza globale”, in un mondo multipolare, sfruttando ogni occasione propizia e facendo valere le proprie specificità non solamente in termini di popolazione, storiche e culturali, nonché di collocazione strategica in Asia ma, almeno fin qui, avvalendosi di credenziali di democrazia e di pluralismo, riconosciute universalmente alla “più grande democrazia del mondo”: sempre che l’India rimanga tale.
Infatti, sul piano internazionale, l’unico vero rischio potenziale di una India sempre più polarizzata in senso hinduista, nel caso di una ulteriormente accresciuta maggioranza parlamentare favorevole a Modi, è quello di vedere erose le sue credenziali di Paese secolare, democratico e pluralista, e con esse, il fondamento delle sue storiche e assai significative relazioni con i Paesi occidentali.
E, allora, preso atto dell’importanza forse “esistenziale”, di questa tornata elettorale per il futuro dell’India, non resta che aspettare la presentazione dei risultati di questa straordinaria partecipazione popolare al voto, attesi per il 4 giugno 2024.
Esistenziale o meno, sembra comunque certo che Narendra Modi ed il suo progetto di un’India sempre più hinduista sia destinato a restare per lungo tempo al centro del dibattito politico in India, sperando che non rimanga l’unico.