“…e di un cinema di periferia che ne sai?” Ricordo sia la prima che l’ultima volta. La prima (1966 o giù di lì) con una sottile angoscia. Eravamo appena andati ad abitare nei pressi e non ero ancora pratico delle strade. Una domenica d’autunno all’uscita da non ricordo quale film mi ritrovai immerso nella nebbia, come il nonno di “Amarcord”, a pochi minuti da casa ma in un quartiere ancora ignoto. Sbagliai strada, poi la ritrovai, ma non c’era “google map” e non fu una sensazione piacevole. Molto migliore il ricordo dell’ultima, legato a “Un sacco bello”, lo straordinario esordio di Verdone. Gran commedia sul ferragosto, seconda solo al “Sorpasso”. Era il 1980 e già da due anni abitavo a Roma. Non mi sarebbe più capitato di tornare in quel cinema che molto avevo frequentato. Molti anni dopo, per uscire dalle difficoltà, il proprietario optò per le luci rosse e il “Corallo” entrò definitivamente in un’altra orbita.
Ogni tanto passavo sotto quel tratto di portico. Pensavo a uno sketch di Dario Fo degli anni in cui si accendevano le luci rosse dell’hard: la gag del signore che passa con aria noncurante davanti a un cinema di questi, scomparendo al suo interno in un nanosecondo come per un misterioso fenomeno di teletrasporto. Com’era possibile che resistessero, in tempi di cassette e DVD in edicola, di pay–tv e poi di portali web, questi ultimi giapponesi della pugnetta e del “partouze” al cinema? Qualche spietato report dava conto dello stato dell’arte a Roma, dove oggi ne rimane uno solo, in zona stazione. Un classico.
Venne la pandemia, e portò via le ultime foglie dai rami. Il Corallo rilanciò con una campagna abbonamenti di tipo teatrale e prezzi che sembravano quelli della curva del Bologna. Diventò il cinema più caro della città, ma pare che lo fosse ancora di più quello di Modena. Classiche le agevolazioni: militari – “di bassa forza”, si aggiungeva una volta – e ragazzi, ovviamente maggiorenni. Speciali abbonamenti per le coppie. Oggi, se cercate su Google “cinema Corallo” trovate articoli come questo, o come questo, un po’ meno elegiaco, sulla resistenza dell’ultimo porno cinema di Bologna.
Appartengo alla generazione che ha visto nascere, prosperare e scomparire, per lo più senza rimpianti, i cinema a luci rosse. Quelli impropriamente definiti tali degli anni 70 e 80, alfieri di quel “soft core” che oggi va, dopo mezzanotte, anche nei canali “movie” delle tv generaliste, e gli “hard core” che ne avrebbero preso il posto. Da quando le pagine degli spettacoli ne pubblicavano i “tamburini” (prime visioni, seconde visioni, terze e ulteriori, parrocchiali e luci rosse), a quando bisognava passarci davanti per sapere che c’erano. Prima arrivarono le pay tv, con la possibilità di vedere anche questi film a casa propria a qualunque ora, poi le piattaforme e infine il porno on line di oggi, macchina ipertrofica di dimensioni spaventose per vastità e influenza. Vera e propria minaccia alla democrazia, né più né meno della cocaina e delle droghe sintetiche, che ne sono l’alimento e del cui commercio condivide ormai la pervasività e la sostanza criminale, politica e sociale.
Un grande film di fine secolo (“Boogie nights – L’altra Hollywood”, di Paul Thomas Anderson, 1997) racconta la grande mutazione degli anni 70/80 e prefigura quella ancor più grande a venire. Mostra il passaggio dal costosissimo porno in pellicola a quello in videocassetta. La fine dell’”Altra Hollywood” con le sue ambizioni “artistiche”, i suoi studios, le sue maestranze (migliaia di tecnici, attori, registi, operatori, truccatori, fonici) e la nascita di un’atomizzata produzione video infinitamente meno costosa. Il passaggio dalle centinaia di titoli l’anno alle decine di migliaia; quello dai blockbuster per le sale come “Gola profonda” alle edicole rigurgitanti di cassette per uso personale e domestico: la pulp fiction del porno (mordi e fuggi, usa e getta). Il tracollo e l’ulteriore corruzione di un mondo già corrotto ma vitale, affogato nella droga e nell’alcool, nei delitti e nelle pene. Anderson ci è nato a Studio City, Hollywood. Ci ha giocato da piccolo in quell’ex bosco di agrifogli della S. Fernando Valley e non ne è più uscito. Oggi lo racconta quasi in ogni film, con lucidità e affetto. “Boogie nights” è un magnifico racconto corale alla Altman, ambientato negli anni 1978/83. Sviluppa il tema del primo cortometraggio di Anderson, “The Dirk Diggler miracle”, un finto documentario di pochi minuti, tenendo d’occhio la parabola del più celebre fra gli attori porno, l’americano John Holmes, morto a quarant’anni di AIDS nel 1988. Da cui l’originale l’epicedio di Elio e le Storie Tese: “John Holmes – Una vita per il cinema” (ovvero “il pene mi dà il pane”). Pietà per chi cade, ma non sempre agli sconfitti della storia, e non parlo di Holmes, si addice il rimpianto.
Piccola storia ignobile. Nei titoli era Lou Perry, ma si chiamava Louis “Butchie” Peraino, ed era figlio di Anthony Peraino della famiglia del boss siciliano Joseph Colombo, il produttore di “Gola profonda”. E fu il clan Colombo ad investire 50.000 dollari in quella settimana di riprese a Miami. Negli USA la pornografia di quegli anni era controllata dalla mafia italiana, che già controllava la prostituzione, le “dark room” e i “peep show” di Times Square a Manhattan. Una volta passata sotto l’ala di Carmine Peraino, dopo la sparatoria che aveva lasciato paralizzato Joseph Colombo, la famiglia si era lanciata nella produzione hard. Ma “Gola profonda” fu un’altra cosa. “Fu come vincere alla lotteria. Uscito il 12 giugno a New York, fece un milione di dollari di incasso nella prima settimana, l’equivalente di sette milioni di oggi. In sei mesi saranno triplicati. Nulla di simile si era mai visto in questo genere cinematografico”. Linda Lovelace per la sua performance ricevette 1250 dollari. I Peraino, padre e figlio, dimenticando chi fossero i finanziatori originari del progetto, intascarono tutti i proventi. Una mossa non avveduta: il 4 gennaio 1982, a quasi dieci anni dall’uscita nelle sale, furono raggiunti da una raffica di colpi in una via di Brooklin. Il padre rimase ucciso sul colpo, il più giovane finì in sedia a rotelle. Una passante cinquantenne fu la vittima innocente di questo regolamento di conti, ultimo episodio della storia particolarissima di un film entrato nel mito.”. (Lilli Gruber, “Non farti fottere! – Come il supermercato del porno online ti ruba fantasia, desiderio e dati personali”, Rizzoli, 2024)
Archeologia sociale del porno, preistoria. Ma non è al cinema che Lilli Gruber, dal cui ultimo libro ho preso vicenda e parole, guarda con particolare interesse. Parte dai “padrini del porno” per dire che, come di norma, non c’è niente da rimpiangere nel vecchio; cita “Boogie nights” attraverso le parole di un’intervistata, ma la prima cosa ad interessarla di “Gola profonda” è “Ordeal” (1981), l’autobiografia di quella prima star del porno, Linda Lovelace, costretta a recitare nel film da chi all’epoca era suo marito e agente (Chuck Traynor) e minacciata per tutta la durata delle riprese. “Ho girato con una pistola puntata addosso”, scrive. Primi interessanti contratti di lavoro nel porno della golden age.
Nel suo libro il cinema viene presto abbandonato, lasciando tracce in qualche opportuno riferimento e in un paio di interviste, per puntare più in alto. Perché più in alto, incomparabilmente più in alto, si è spostato quello che ai tempi di “Gola profonda” avremmo chiamato “il livello dello scontro”. Ha un titolo malizioso e magari un po’ corrivo “Non farti fottere!”, con quell’enorme punto esclamativo rosso che se non fosse stampato sarebbe uno sgargiante segnale d’allarme, rosso led intermittente e sonoro. Ma è un titolo in tono con questa fiera supplica, per nulla moralistica, a fare attenzione a dove mettiamo i piedi. Per noia, gli adulti; per vorace curiosità gli adolescenti, che ci giocano la pelle e il cuore. Ed è un bel libro.
Il porno oggi è online. Lo sappiamo tutti e non ci sarebbe niente da dire, se fosse appunto come per i film e le loro piattaforme. Ci sono contratti, norme da rispettare, tutele, diritti (anche sindacali). Ci si abbona e – perché no? – si guarda. Ma oggi sulle autostrade del porno corrono piccoli bolidi di 10/12 minuti, da guardare, gratis e sul telefonino, in autobus come durante l’attesa dal dentista. O a scuola. Le ricerche sul campo concordano sull’età del primo accesso al porno, ovviamente tramite telefonino, situandola fra i dieci e i dodici anni. Uno su cinque dei piccoli intervistati (un campione di migliaia) vi accede a scuola; quasi la metà “su supporti telematici in dotazione all’istituto”. Noi non li abbiamo, questi supporti telematici a scuola, e queste indagini neanche le facciamo. Quindi andiamo benissimo, anche se l’Italia è uno dei record-State mondiali di consumo. La prima forma di educazione sessuale (se così vogliamo chiamarla), prima per abissale distacco, a disposizione degli adolescenti è oggi il porno online. Non vederlo è esserne complici. E lei non vuole esserlo.
I viaggi di Gruber. Sono dieci le stazioni del viaggio di Gulliver/Gruber nel mondo del porno: 1) “La banalizzazione dello stupro” 2) “Il labirinto del porno”, 3) “Sex workers”, 4) ”I segreti della porn economy”, 5) “Tutti pazzi per ‘Only Fans’”, 6) “Il porno degli orrori”, 7) “Giù le mani dai minorenni”, 8) “(Dis)educazione sessuale”, 9) ”Bella ciao”, 10) “Porno artificiale”.
Sono titoli che costituiscono un tracciato, quello attraverso i misteriosissimi misteri dei grandi portali. Con i loro padroni ultramiliardari dai nomi comuni – primi fra tutti i fratelli francesi Pacaud, fratello e sorella – di cui nulla, ma proprio nulla, si sa in quel web a cui teoricamente nessuno sfugge. Tranne loro, proprietari del primo portale porno al mondo (“CGCZ”, che vuol dire Pornhub e Youporn), tre miliardi e mezzo di visualizzazioni al mese. C’è l’oligarca russo con quartier generale a Cipro (Oleg Nepetenko, proprietario di “xHamster”, quarto gruppo al mondo), perché in quel gran casino che è l’Europa, Cipro concede la cittadinanza cipriota, quindi europea, a chiunque acquisti una proprietà immobiliare nell’isola, e con essa la possibilità di riciclare in euro ogni tipo di provento, di qualunque tipo, in qualunque moneta. Ci sono le aziende che spostano l’attività, da un giorno all’altro, dalla California (che in tempi di AIDS impone il preservativo ai rapporti sul set) alla Florida, che invece lascia liberi tutti e si arricchisce. C’è la delocalizzazione a Praga e Budapest dei gruppi europei, grandi e piccoli, perché “dopo la caduta del Muro in Ungheria si faceva la fame”, dice un produttore di lungo corso: parafrasando la “Spice” Geri Halliwell (“It’s raining men”), si poteva dire “it’s raining girls”, e quindi tutti in Europa hanno trasferito lì le aziende del settore. Anche i nostri, nessuno escluso.
Un viaggio, quello di Lemuela Gruber, fra le sex workers: le bilaureate e le schiave del sesso, costrette, queste ultime, ad accettare qualunque “cambio di programma”, per infame che sia, anche solo per essere pagate, mentre le prime se la tirano come poche e magari gestiscono un traffico importante su “Only Fan”, dove sono tutte padroncine, in teoria; ma esistono ancora, ai piani inferiori, i “magnaccia virtuali”, solo che si chiamano brokers. Una di loro ha scelto come nome d’arte Sylvia Teresa Bataille, come la moglie di Georges Bataille prima e di Jacques Lacan poi. Alta cultura, che del resto possiede: c’è tutto un settore, colto e femminista, prevalentemente francese, della pornografia, che la rivendica come arma di liberazione. Anche un capitoletto di “Non farti fottere!”, non so se con intenzione, ha il titolo di uno dei manifesti di questa corrente: “Pornocrazia”, di Catherine Breillat: uno dei due film di questa rispettabile autrice – che esordì ragazza con una piccola parte in “Ultimo tango a Parigi” – girati con protagonista Rocco Siffredi. Ma nel paese delle “sex workers” ci sono anche Charlotte Stokely e le Cupcake Girls. Sembra il nome di un complesso pop, ma è un gruppo di ragazze del ramo associate in una forma di sindacato di settore. E altre con loro.
Un altro paese toccato dalla nostra Gulliver è quello degli adulti che mettono in rete le proprie prodezze, cedendo preziosissimi dati personali alle piattaforme degli “aggregatori”, in grado di studiarne ogni particolare, come d’altr’onde dei loro gusti di spettatori. Non solo di quel che guardano, ma anche di quando si fermano, vanno avanti o tornano indietro; cosa saltano e cosa guardano due volte, per fornire loro il prodotto più acconcio. Ma ci sono anche i dati che serviranno (Cambridge Analytica insegna) quando sarà ora di votare e avanzare anche in questo campo la proposta più “cool”. E le minorenni, che filmano – per sedurre, le misere – altre prodezze rischiando feroci “revenge porn” e comunque di ritrovarsi fra i piedi quelle immagini, chissà quando e chissà dove. Oltre agli stessi problemi, anche peggiori, con i dati personali. E poi c’è l’intelligenza artificiale (ti pare che potesse mancare?) che consente di filmare la faccia della vicina o della collega di lavoro e confezionare un credibile filmato porno, sostituendo questa faccia e magari altre caratteristiche fisiche del soggetto a quelle dell’attrice impegnata nelle sue evoluzioni.
Chiudo con l’arrivano i nostri: ci sono e ogni tanto vincono. Sanno trovare le strade più efficaci per ottenere il rispetto delle leggi e spostare più in avanti quello della dignità. Per mettere qualche sasso fra gli ingranaggi. Sono le inchieste giornalistiche, che aprono la strada non tanto ai legislatori, paralizzati dal timore di limitare la libertà d’espressione, ma alle intrusioni del fisco, le uniche che contano davvero in America; in grado, loro sì, di aprire voragini. E poi ci sono le banche – struttura portante di ogni business – a bloccare i pagamenti con carta di credito ai colpiti da fisco e magistratura o ai “bannati” dalla pubblica opinione. Perché puoi anche sfuggire alla legge, ma se la banca blocca i pagamenti con carta di credito, unica moneta online, alla tua azienda sono guai seri.
IL finale è un brindisi. Dice Woody Allen: “E’ sporco il sesso? Sì, ma solo se fatto bene.” Ecco, facciamolo. Bene, come va fatto, bello sporco. “Nunc est bibendum” (lo diceva anche Orazio).