Per togliere un senso a una cosa che il senso non ce l’ha più (parafrasi di Vasco Rossi), i maggiorenti del Pd (immaginiamo su prodiga imbeccata di Lady Schlein) hanno deciso di togliere la lettera A alla Festa dell’Unità. Pensavano che l’ondata di politicamente corretto, di rilettura della grammatica, del mainstream della schwa e dell’imposizione della cultura LGBT si fosse esaurita e invece, come un’anomala intempestiva onda di ritorno, ecco la sottrazione lessicale che si abbatte, come ulteriore scorno, a una manifestazione che non solo ha perso forza ma che ora è più obsoleta del Pala Cavicchi o dell’Orchestra Casadei.
Come sappiamo il sole dell’avvenire non è mai sorto, il compagno Castro non ha doppiato il capo dei cinquanta anni di Governo, il patto di Varsavia si è disciolto mentre la Nato è più viva che mai. Se c’è stata una rivoluzione non ce ne siamo accorti e comunque l’abbiamo persa. Vorremmo svegliarci come il protagonista del film Goodbye Lenin, quello che ha ispirato Veltroni nelle sue scorribande cinematografiche, per riascoltare alle vere autentiche genuine Feste dell’Unità gli Inti Illimani come Ernesto Bassignano e vederle surclassare in termini d’incasso le Feste dell’Amicizia di democristiana memoria. Invece no, quell’Unità non c’è più. Il quotidiano, quello che i militanti, rubando tempo prezioso alla propria vita, vendevano di giorno e di notte ai semafori, è stato, complice Renzi, oggetto di un indefesso mercimonio e l’ultima chicca è il conferimento di una rubrica sul quotidiano al discusso Mancini, ex servizi segreti, forse solo in virtù della fama regalatagli dall’equivoco incontro con l’ex presidente del Consiglio (versione ufficiale “per passarsi i Babbi”, rinomato dolce toscano). Che musica ci fanno sentire al Festival dell’Unit*? Beh, quella di cui si nutre il Festival di Sanremo, i rapper. Quasi a dimostrare che ha ragione la destra: non c’è mai stata un’egemonia della cultura di sinistra. E se c’è stato un Gramsci che la teorizzava, noi di destra lo strumentalizziamo, ci scriviamo su un libro a tesi, come ha fatto Alessandro Giuli, direttore del Maxxi di Roma per non meglio precisate competenze artistiche. Insomma c’è da far tornare di moda Giorgio Gaber (“Cos’è destra, cos’è sinistra?”) chiedendosi se una manifestazione come Atreju, dove tutti sono Fratelli (d’Italia naturalmente) non abbia più sprint, più benzina, più vitalità, di questa versione spenta grigia e edulcorata, pallida copia di quella che fu La Festa dell’Unità, l’originale. Dunque il nuovo nemico di classe è stato scoperto, è questa famigerata A, che poi sarebbe una lettera/vocale al femminile. L’alternativa è l’asterisco, imposto in ambienti anglosassoni per non discriminare le donne e le minoranze, nessuna esclusa. Insomma viva il gender, escludendo il maschile e il femminile. Ribadendo che nonostante l’uso strumentale dell’immagine di Berlinguer questo Pd non ha niente a che vedere con il vecchio Pci. Allora perché riesumare una cosa bella e gloriosa come La Festa dell’Unità? Perché non inventarsi qualcosa di nuovo, magari legato ai diritti civili? Chiedere il gradimento a quegli onesti servitori di partito che per anni hanno saltato le ferie per scodellare tortellini nelle Feste tradizionali ormai perdute e che, quasi attivando il pilota automatico, votano il Pd per riflesso condizionato o turandosi il naso assecondando la passabile tesi di Massimo Cacciari ovvero “i due terzi di quelli che votano il partito lo fanno per inerzia più che per convinzione”.