Un mese fa, il 14 gennaio, una camera della Corte europea dei diritti umani ha affermato che l’Italia ha violato la Convenzione non consentendo a una nonna, la signora Emilia Terna, di potere incontrare regolarmente la sua nipotina.
A dire il vero, la nipotina (che la figlia le aveva affidato) venne sottratta alla Terna e affidata ai servizi sociali, perché la donna era in carcere. La bambina poi finì in un istituto presso il quale, sebbene ne avesse diritto sancito anche dal giudice, la nonna non poteva visitarla, perché ritenuta una frequentazione dannosa per la piccola, in quanto appartenente a un ambiente malavitoso. Nell’aprile del 2018 la bimba venne addirittura dichiarata adottabile.
Ma la battagliera nonna non si arrendeva e riusciva a portare il suo caso davanti alla Corte europea. Che riconosceva la violazione dell’articolo 8 della Convenzione, secondo il quale «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza». Infatti, ritiene la Corte, il comportamento delle autorità italiane ha impedito alla nonna di poter mantenere in vita il suo rapporto familiare con la nipote, un rapporto tutelato dalla Convenzione.
La signora Terna si doleva pure della violazione dell’articolo 14, che vieta le discriminazioni, ritenendo che il trattamento riservatole fosse dovuto al fatto che suo marito era un Rom.
La Corte però ha escluso motivazioni del genere, ritenendo piuttosto che quanto accaduto alla ricorrente fosse dovuto semplicemente a una disorganizzazione usuale in Italia nella gestione delle visite, come dimostrato dall’elevato numero di ricorsi in materia davanti alla Corte stessa.
Una decisione da approvare senz’altro, ma che lascia con l’amaro in bocca. La gestione delle visite parentali in Italia, dice la Corte, è caratterizzata da una sistemica disorganizzazione.
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