Ho già avuto modo di lanciare qualche critica alle correnti analisi geopolitiche che si affollano da quando Zoom ha facilitato grandemente incontri e seminari in rete.
Tutto quello che dicono gli esperti di geopolitica è in gran parte vero. È vero che Erdogan sta perseguendo la sua politica di fare della Turchia una potenza regionale. È vero che si è impegnato in Libia e che sta violando le frontiere siriane per perseguire il popolo curdo, secondo lui, tradizionale nemico dei turchi. È vero che Erdogan ricatta l’Europa utilizzando la minaccia dei migranti. Tutto vero ma, a mio avviso, non sempre si fa attenzione ad altri elementi della realtà, che invece ci servirebbero a capire meglio, e forse, a limitare e contenere le azioni di questo personaggio.
L’ex Direttore di uno dei più grandi periodici turchi, Dumuriet, in una sua conferenza spiegava la situazione politica del suo paese, e l’avvento di Erdogan. Gli chiesi se pensava che la crisi della democrazia nel suo paese, non dipendesse anche dai fallimenti delle élites intellettuali e democratiche che, dopo Ataturk, avevano fondato la democrazia nel paese. Mi rispose che certo quelle élites – delle quali faceva parte – erano responsabili di aver dimenticato di lavorare per le grandissime comunità povere e dimenticate delle aree asiatiche del suo paese. In realtà molte delle preoccupanti azioni di Erdogan, che influiscono sulla geopolitica, derivano invece da fatti molto più banali, e dalla universale logica della tirannia, che segue un percorso che non è mai cambiato dalla notte dei tempi. In primo luogo la tirannia è quasi sempre frutto della povertà e del malcontento di un’ampia parte della comunità. Sono forse tra i pochi europei che hanno trascorso un mese di lavoro in Corea del Nord. Quando sento dire che il tiranno della terza generazione, i suoi missili, e il pericolo nucleare, sono l’espressione di una logica di potenza, mi accorgo che i grandi analisti trovano molto più stimolante questo approccio, perché non conoscono, o sottovalutano il vero problema. Il tiranno della Corea del Nord non sa come dar da mangiare al suo popolo e quindi gli serve un obiettivo esterno, come del resto faceva Enver Hoxa, il tiranno albanese. Questo però significa che l’analisi geopolitica che suggerisce minacce, ma anche negoziati e trattati, sottovaluta l’esigenza fondamentale, che sarebbe quella di migliorare la vita dei Coreani del Nord.
Sarà certamente meno stimolante, ma il percorso dei tiranni è sempre lo stesso. O prendono il potere con un colpo di stato, oppure ci arrivano con una progressione, sempre uguale di situazioni e di metodi.
In primo luogo serve il disagio di una parte importante della comunità. La Turchia costiera, e quella delle grandi città, sono ricche e aperte, per le Università, le imprese e gli scambi con l’estero (turismo ed altro). La Turchia anatolica è povera e arretrata e si sente indifesa e dimenticata (come il sud di moltissimi paesi anche fra quelli avanzati). Poi occorre un collante ideologico, e l’islam può essere quello più comprensibile, dalle componenti povere del paese. E restituire agli uomini il potere di sottomettere le donne è sempre una fantastica tentazione. Ad Erdogan l’islam non interessa affatto. Non è certo qualcuno che ha rispettato tutta la vita i suoi principi, ma l’islam gli ha offerto il magnifico pretesto per diventare il rappresentante dei dimenticati. Il percorso continua con la ricerca di un pretesto: glielo ha dato Fetullah Gulen, molto più islamista di lui, che aveva organizzato – o presuntamente organizzato – un colpo di stato. Fantastica occasione per lanciare un’ampia repressione che includeva rappresentanti delle forze armate, intellettuali, giornalisti e anche professori di scuola. Infine il potere del tiranno si consolida acquisendo progressivamente tutte le funzioni e i poteri dello stato. Colui che lo ha fatto meglio nella storia, è stato l’Imperatore romano Augusto. Uomo pragmatico e intelligente ha assunto progressivamente tutte le cariche dello stato, piano piano, senza violenze, da quelle consolari alla magistratura. Tutti i tiranni fanno così. Erdogan ha messo suoi fedelissimi nei posti chiave, l’esercito, la giustizia e più recentemente, persino la principale Università turca.
Naturalmente i tiranni si preoccupano moltissimo del dissenso, esiliando o imprigionando intellettuali o giornalisti. Ma questo ultimo elemento, che sembra essenziale per consolidare il loro potere, e che fa parte del percorso, ne rappresenta invece, la più grande debolezza. La repressione della libertà di pensiero si spande a macchia d’olio e finisce per colpire anche “i vecchi amici” creando progressivamente dissenso, malcontento e indignazione. Alla fine i nuovi tiranni del Myanmar sono riusciti a suscitare nel popolo una reazione potente e diffusa, non perché il popolo ami e comprenda la democrazia, ma perché la repressione del dissenso è una spirale che, alla fine, non si riesce a fermare.
Ho detto forse cose che tutti sanno. La verità è che vorrei solo far comprendere come le logiche della geopolitica, possono farci perdere di vista la tipologia di azioni, che servono veramente a contrastare i tiranni. Se si tenta di combattere i tiranni con gli eserciti si rischia di aiutarli a coalizzare i loro popoli. Una azione di sostegno economico e politico alle comunità che forniscono loro la base, è una attività molto più lenta, costosa e faticosa, ma è l’unica che potrebbe portarci a risultati efficaci e duraturi.
L’Iraq e l’Afghanistan sono la miglior prova dell’insuccesso delle grandi strategie. Troppo tardi si è capito che i problemi di questi due paesi non si risolvono con il trapianto di soluzioni democratiche di tipo occidentale, ma sostenendo le comunità nel faticoso percorso volto a far comprendere che i diritti e la democrazia non sono soltanto utili ad una etica – una estetica – dello stato, ma sono quelli che permettono ad una comunità di vivere in pace assicurando sviluppo e dignità a tutti i cittadini. Lo so che è più difficile, ma sarebbe ora di cominciare.