In previsione del Giubileo del 2000, il Comune di Roma e il Vicariato elaborano il piano ‘50 chiese per Roma 2000’ con l’intento di promuovere la costruzione di nuove chiese nelle aree periferiche della città spesso cresciute disordinatamente e bisognose tutte di trovare dei fulcri identitari e centri aggregativi. Così, nel 1995 nasce il bando internazionale ad inviti per il centro parrocchiale di Tor Tre Teste , periferia est di Roma. Vennero invitati a produrre progetti 6 ‘archistar’: Santiago Calatrava, Peter Eisenman, Tadao Ando, Gunter Behnisch, Frank Gehry e Richard Maier.
Il progetto, dopo accurata selezione, viene affidato a Maier, in quanto rispondeva meglio alle caratteristiche simbolico/funzionali richieste e nel 2003 viene inaugurata l’opera che, secondo l’idea iniziale, doveva come ‘appoggiarsi’ sul terreno libero intorno, offrendo una ‘permeabilità’ visiva orizzontale, che poi si è un po’ persa con la realizzazione della recinzione di protezione…, quasi un’astronave bianca atterrata lì.
Sicuramente avrà giocato la fama dell’architetto ma soprattutto la straordinarietà del progetto, quasi unica a Roma e rara in Italia, fatto sta che il luogo, una volta considerato ‘remoto’ e privo di ogni tipo di interesse, comincia ad essere meta di visite, quasi pellegrinaggi, prima da architetti e amanti dell’architettura, poi da curiosi di ogni genere tanto da suscitare tra i residenti una palpabile sensazione di orgoglio di luogo a cui non erano certo abituati.
L’area del progetto è limitrofa ad un’ampia parte verde che si chiude ad occidente con un’altra periferia urbana, abbastanza anonima e caotica come tante. Con il contributo e la collaborazione di Comune, Circoscrizione e Associazioni locali quell’area verde è stata rispettata, valorizzata con percorsi fruibili, puliti ed attrezzati e inserita come cornice qualificata e piacevole per percorsi di salute. Nell’area sono presenti ruderi di un tratto di acquedotto imperiale che ora è un’altra ‘cifra’ caratterizzante di questo nuovo parco dove, tra l’altro, è stato realizzato un piccolo stagno curato come memoria d’acqua.
È un esempio intelligente e lungimirante di come la buona architettura possa essere al servizio prima di tutto della qualità dei servizi a cui viene chiamata ma, soprattutto, a compiere il miracolo di dare carattere e dignità ad un intero territorio intorno trasformandolo in ‘città’, in luogo di vita piacevole alla vista, allo ‘stare’ e scambio per chi vi abita e chi vi arriva, non è molto distante dall’idea di bellezza urbana propria della tradizione storica di questo Paese, anzi ne è l’essenza.
Per chi arriva nel quartiere, tra l’altro di recente e pianificata costruzione e non certo una periferia ‘spontanea’ come ce ne sono diverse a Roma, la prima impressione è quella della sorpresa. Uno strano ‘fiore bianco’ di cemento e vetro appare in cima all’altura dove pareti dalle linee ortogonali si contrappongono a tre frammenti di ‘gusci’ curvilinei connessi tra loro da vetrate trasparenti. L’associazione immediata è quella di una nave con le vele spiegate ed è proprio questa la prima ‘cifra’ ideale del progetto: la nave, come metafora della Chiesa, non è la nave nella procella rappresentata nel mosaico di Giotto nella Basilica di San Pietro?
Ma la sorpresa continua diventando curiosità di entrare tra quei setti murari bianchi retti e curvi, vedere che accade lì dentro: è questa la ragione delle vetrate che si lasciano attraversare dallo sguardo che addirittura passa dalla parte opposta, movimento nella visione e dialogo dinamico delle strutture.
Ci devi entrare non puoi restare fuori. Ma ecco, una volta all’interno, la sensazione cambia, lo spazio è razionale, controllato nelle proporzioni e nelle forme regolari. L’effetto questa volta è di accoglienza non di movimento, devi stare, vedere tutt’intorno lo spazio e goderlo nella sua essenziale, bella e rassicurante linearità. A sinistra le pareti curve, i gusci, si gonfiano lasciandoti uno spazio sicuro e accolgono e proteggono altro spazio tra una curva e l’altra ma non lasciano entrare il sole direttamente da sud, la luce entra dalle vetrate e rimbalza sulle superfici delle pareti rette e curve diffondendosi uniformemente, stai dentro alla luce, avvolto, immerso. Il travertino usato a terra e per gli arredi è come un’ancora alla terra, al concreto, mentre quella luce ti porta in una dimensione diversa, ti costringe a riflettere sul senso del tutto e di te stesso lì dentro, e, ovviamente in primis, a quello del segno più solo ed evidente: il Crocifisso fissato su di una mensola nel mezzo e posto come sospeso davanti ad una specie di tunnel di ombra leggera che conduce verso il punto di luce più potente, la finestrella rettangolare in fondo, poco sopra, sulla destra. Tutto è preciso, ben disegnato e realizzato, e tutto ed ogni cosa sono significanti, insomma un’esperienza estetica, spirituale di pura sobria bellezza.
Sulla destra invece lo spazio si chiude con una parete verticale in parte bianca e in parte composta come da un diaframma di lamelle verticali di legno. Con questa parete si chiude lo spazio dedicato alle funzioni religiose di comunità e inizia la zona degli uffici parrocchiali, sezione caratterizzata in facciata dal profondo segno della pseudo torre campanaria con le 5 campane a vista.
Ritornando sul piazzale ci si accorge meglio delle ‘stecche’ dei palazzi intorno che sembrano come piegate ad ala a fare spazio all’evento architettonico centrale che sebbene più ridotto in dimensioni, catalizza tutta l’attenzione.
«La nuova costruzione doveva rappresentare un preciso segno architettonico, doveva essere facilmente identificabile, e capace di riorganizzare e dar forma a questo quartiere, un po’ anonimo ma anche così densamente popolato… Abbiamo pensato alla natura dello spazio ed al suo aspetto durante il giorno anche se la chiesa ha un uso serale e notturno per la comunità. Inoltre, collocata in un quartiere residenziale, la chiesa sarà vista da chi vi entrerà, ma anche da centinaia di famiglie che la vedranno dall’alto, che vivranno intorno ad essa: volevo che la vita e la luce dell’edificio sacro entrassero nella vita del quartiere… spero tuttavia di aver dato a questi spazi una luminosità che sia coerente con l’apertura agli altri che caratterizza il sentimento religioso.» – Richard Maier.
La tua ‘nave’ accoglie, la tua nave arriva e parte ma sempre porta e trasporta illumina e arricchisce.
Fuor di metafora questa ricchezza dovrebbe essere sempre il portato che caratterizza una buona architettura, che come tale dura nel tempo a prescindere dall’occasione in cui sia prodotta.