Sette anni per proteggere la biodiversità di terre e mari di un terzo del pianeta. Il 2023 è iniziato con una specie di conto alla rovescia per l’accordo firmato prima di Natale a Montreal alla Conferenza delle Nazioni Unite per la tutela della biodiversità. Le organizzazioni internazionali e la stragrande maggioranza dei media hanno definito storica l’intesa raggiunta dopo anni di negoziati. Una strada si è aperta e vedremo anno dopo anno dove realmente ci porterà. Iniziamo a dire che per sostenere gli obiettivi del GBF, Global Biodiversity Framework (questo il nome del documento sottoscritto ) ci vorrebbero molte più risorse di quanto è stato stabilito. L’accordo indica stanziamenti di almeno 20 miliardi di dollari all’anno entro il 2025 e di 30 miliardi negli ultimi cinque anni, fino al 2030. Una parte di questi soldi servirà per sostenere i Paesi in via di sviluppo e gli Stati insulari. L’altro capitolo che ha colpito gli osservatori internazionali è quello dove si indicano 23 target ambientali da centrare entro il 2030. I due impegni- soldi e target- rappresentano la prima vera svolta per la sostenibilità del pianeta, per non far scomparire piante, specie protette, acque. Secondo uno studio della piattaforma sulla biodiversità e i servizi ecosistemici (IPBES), un milione di specie attualmente è minacciato di estinzione e il 75% degli spazi naturali è stato modificato dalle attività umane. Le risorse del GBF arriveranno sia da finanziamenti nazionali che internazionali.
L’accordo, dunque, c’è. È stato firmato da 190 Paesi con l’esclusione di Stati Uniti, Cina, Paesi Arabi e Corea del Nord. Tuttavia- come vediamo dalla Conferenza sul clima di Parigi del 2015 in qua- non è scontato che sarà applicato nella sua interezza. È il caso di ricordare che alcuni Paesi africani (Congo, Camerun, Uganda) lo hanno già criticato, sebbene uno dei capisaldi sia il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni. I Paesi firmatari dovranno fare i conti con piani nazionali sulla biodiversità da preparare e integrare con quelli sul clima e sugli abbattimenti delle emissioni inquinanti. Sono azioni volontarie che dovranno sostanziarsi in documenti specifici di medio tempo e che potranno contare sui soldi del nuovo Fondo per la biodiversità. Dopo il 2030 ci ,poi, sono gli obiettivi finali da raggiungere entro il 2050: pianificazione nella gestione e uso dei territori; far diventare il 30% delle aree marine e terrestri aree protette; integrare i valori della biodiversità nei processi produttivi; sviluppare pratiche agro-ecologiche; ridurre gli incentivi dannosi per l’ambiente di almeno 500 miliardi di dollari.
“ Più della metà del Pil globale dipende ormai dai servizi ecosistemici”, ha detto la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. E l’Europa anche rispetto alla distruzione degli ecosistemi cerca di restare ancorata al suo Green New Deal. D’altra parte chi investe sulla natura rafforza i processi di sostenibilità e combatte il cambiamento climatico. Ciò che a livello globale dopo Montreal bisognerà misurare- almeno come riflesso degli investimenti per la biodiversità – è la concreta riduzione dei sussidi alle imprese che inquinano. I 500 miliardi di dollari di aiuti di cui Cina, Stati Uniti ed altri Paesi dovranno fare a meno sono risorse che oggi consentono loro di competere sui mercati internazionali ed esportare beni necessari per le economie avanzate. Ursula von der Leyen ha detto anche che per la prima volta nella lotta ai cambiamenti climatici abbiamo obiettivi misurabili. Ha ragione. Ma non sarà facile controllare le economie di Grandi Paesi e se sono diventate green. Di un Paese come la Cina, per esempio, che nel 2022 ha consumato 8 miliardi di tonnellate di carbone con impatti ambientali devastanti sull’intero pianeta. Della serie: la tutela della biodiversità può aspettare. Noi crediamo di no.