“In giugno i cittadini degli Stati dell’Unione europea eleggeranno il loro nuovo Parlamento europeo. Gli analisti dicono che i partiti di estrema destra, che adesso costituiscono il sesto gruppo in ordine di grandezza dell’Assemblea, sono destinati a guadagnare seggi e influenza sulle politiche europee, facendo sentire il loro peso su qualsiasi scelta, dai diritti civili alle scelte di genere”. Lo scrive l’Ap, l’agenzia di stampa statunitense, una delle tre ‘agenzie mondiali’ (con Reuters e Afp), che guarda alle vicende europee con un occhio distaccato e didascalico – molti suoi utenti ne sono digiuni -.
L’Ap si riferisce alla potenziale avanzata elettorale dei partiti del gruppo cui appartengono la Lega e il Rassemblement National di Marine Le Pen, insieme all’AdF neo-nazista tedesca. La previsione dell’agenzia prende spunto dal successo, in Olanda, nel voto di novembre, del Partito della Libertà di Geert Wilders, che ha più che raddoppiato i consensi rispetto alle elezioni del 2021, facendo campagna su slogan tipo “niente scuole islamiche, niente corano e moschee” o “no frontiere aperte e immigrazione di massa che non possiamo gestire” – slogan d’impatto in un Paese dove l’immigrazione è soprattutto ‘post coloniale’ e dove meno del 5% della popolazione è musulmano -.
Nel racconto dell’Ap, l’avanzata dell’estrema destra olandese è stata incentivata da ansie culturali ed economiche che hanno fatto presa sugli elettori, specie per quanto riguarda i migranti. La tendenza è, però, comune ad altri Paesi Ue, Italia compresa, anche se l’esito delle elezioni del 2023 in Spagna e in Polonia lascia anche intravvedere l’emergere di spinte di segno diverso, nella ricerca di risposte ai problemi solidali e non populiste, europee e non sovraniste.
Però, i principali gruppi del Parlamento europeo – popolari, socialisti, liberali, verdi, tutte forze che si considerano ‘europeiste’ – non danno l’impressione di essere a pieno consci di questa situazione; e, soprattutto, non sembra che stiano preparando una valida risposta politica a inquietudini e paure dei cittadini elettori. Quanto ai conservatori, dove ci sono FdI e i polacchi del PiS, usciti sconfitti dalle elezioni di ottobre, mantengono un atteggiamento ambiguo: se a Strasburgo giocano la carta del ribaltamento delle alleanze, dall’attuale ‘ammucchiata’ europeista, costruita intorno all’asse popolari – socialisti, a uno schieramento di centro-destra, nei rispettivi Paesi usano toni e temi dichiaratamente di destra, populisti e sovranisti.
Ue 2024: una corsa più di ambizioni personali che di progetti politici
Per il momento, la corsa al voto europeo è uno scontro di personalità, più che di idee. Lo shock lo ha dato il presidente del Consiglio europeo, l’ex premier belga Charles Michel, un liberale, annunciando la sua candidatura al Parlamento europeo. Il che, però, anticipa solo un problema che si sarebbe comunque posto, perché il mandato di Michel scade a novembre e una sua conferma appariva improbabile.
Andandosene prima, prevedibilmente subito dopo le elezioni e prima della prima sessione a luglio del nuovo Parlamento europeo eletto, Michel mette i capi di Stato e di governo dei 27, cui spetta designare il successore, di fronte a un doppio problema: scegliere in tempi brevi il nuovo presidente del Consiglio europeo per il periodo 2024-’29, magari prima di conoscere l’esito delle elezioni e cioè i rapporti di forza post-voto fra le varie famiglie politiche; ed evitare che il premier ungherese Viktor Orban assuma un peso ingombrante nella gestione degli affari europei.
L’Ungheria, infatti, avrà, dal 1o luglio, la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue. Fuori gioco Michel e nelle more della nomina del successore, toccherebbe a Orban gestire l’agenda ed i lavori del Consiglio europeo e i negoziati sulla distribuzione degli incarichi di vertice delle Istituzioni Ue.
In questo contesto, il presidente francese Emmanuel Macron, i cui eurodeputati fanno capo al gruppo liberale, fa balenare l’ipotesi Mario Draghi, creando qualche imbarazzo al governo italiano, perché Draghi non è riconducibile alla coalizione di maggioranza attuale. La corsa alla presidenza della Commissione europea pare, invece, un derby fra popolari: due donne, Ursula von der Leyen, la presidente uscente, tedesca, e Roberta Metsola, la presidente del Parlamento europeo, maltese, si contendono il posto – ed entrambe corteggiano in modo smaccato il voto italiano e coltivano un’amicizia pelosa con Giorgia Meloni -. I socialiusti, al momento, sembrano avere abdicato ad ogbni ambizione, avendo lanciato una candidatura di basso profilo: Nicholas Schmidt, 70 anni, lussemburghese, commissario al lavoro e ai diritti sociali; un signor nessuno, a prescindere da meriti e qualità (che non conosciamo).
Ue: un ‘Dream Team’, tutto al femminile
C’è già chi favoleggia di un ‘Dream Team’ europeo tutto al femminile: Politico scommette su UvdL alla Commissione, confermata; Metsola al Parlamento, confermata; Mette Frederiksen, danese, socialista – ma vicina alle destre sull’immigrazione -, attualmente premier, al posto di Michel; e, infine, Kaja Kallas, estone, liberale, ‘capo della diplomazia’ europea, al posto di Josep Borrell. Così, con due popolari, una socialista, una liberale: i rapporti di forza politici resterebbero inalterati. In più, c’è Christine Lagarde, francese, che non è a fine mandato alla presidenza della Banca centrale europea.
Pronostici scritti sulla sabbia d’una stagione politica europea tutta da raccontare e zeppa d’incognite. UvdL lavora a un programma per un suo secondo mandato, con un progetto di riforme dell’Unione per migliorarne l’operatività, intralciata dal vincolo dell’unanimità in troppi campi, cominciando dalle politiche estera e di sicurezza comuni, che, infatti, non esistono.
Il vincolo dell’unanimità sempre meno gestibile nella prospettiva di un ulteriore allargamento dell’Unione, con l’ingresso dei Paesi dei Balcani occidentali – Serbia, Montenegro, Bosnia, Macedonia del Nord, Albania e Kosovo -, ma soprattutto di Ucraina, Moldavia e, magari più in là, Georgia. Ipotesi, a loro volta, in parte subordinate alla conclusione del conflitto in Ucraina.
Proposte di riforma sono già state ventilate da vari Paesi, Germania, Francia, Portogallo; e, adesso, la Commissione s’appresta a presentare le sue idee in una comunicazione a Consiglio e Parlamento, che sarà oggetto di una discussione organizzata dall’attuale presidenza di turno belga del Consiglio.
Potrebbe essere il calcio d’avvio d’un processo di riforma, che avrebbe già dovuto scaturire dalla Conferenza sul futuro dell’Europa, ma che è finito su un binario morto, anche a causa del quadro internazionale complicato dall’invasione dell’Ucraina e, ora, dal conflitto in Medio Oriente.
Il processo di riforma dovrebbe essere completato prima dell’allargamento, in modo da coinvolgere nell’esercizio Paesi favorevoli all’allargamento, ma scettici sulle riforme, come i Nordici e i Baltici. Oltre che le procedure di decisione, le riforme dovrebbero riguardare le finanze dell’Ue, dotando l’Unione di risorse proprie, e il lancio di una Europa della Difesa e di una Europa delle Migrazioni, che sarebbe l’unica vera risposta alle pulsioni populiste anti-migranti.
A Davos, al World Economici Forum, Macron s’è detto favorevole a nuovo debito comune Ue, tipo NextGenerationEU, per finanziare l’Europa della Difesa. È necessaria – dice il presidente francese – un’altra fase di reinvestimento pubblico europeo, come durante la pandemia, e forse di eurobond “basati su priorità industriali”. Sarebbe un altro tassello di quell’approfondimento Ue, senza il quale il prossimo allargamento sarà soltanto un annacquamento dell’integrazione.