Il Netter, atlante di anatomia umana, ha sempre esercitato su di me un grande fascino. Ne sfoglio le pagine con reverenza e mi accorgo che la prima tavola raffigurante una porzione di corpo femminile è la numero 179, che illustra l’anatomia della ghiandola mammaria. Bisogna aspettare la tavola 263 per trovare un tronco femminile, usato per mostrare caratteristiche comuni ad entrambi i sessi. Quella che pensavo fosse solo una mia impressione si è rivelata un dato di fatto: da un’analisi di più di 16.000 immagini tratte da 12 manuali, raccomandati dalle più prestigiose università occidentali, emerge che il modello universale di essere umano proposto è l’uomo bianco. Ma perché questo è un dato di cui dobbiamo occuparci? Perché non possiamo soprassedere? Alla fine, cosa cambia per la scienza?
Ci aiuta a rispondere l’epidemiologa statunitense Nancy Krieger che, in uno dei suoi lavori, afferma che “la nostra scienza sarà tanto chiara e priva di errori quanto il nostro pensiero”. Incominciamo, quindi, dandoci dei punti di riferimento precisi. Quando parliamo di sesso (o, in inglese, sex) ci riferiamo ad un qualcosa di biologico, ovvero all’insieme delle caratteristiche anatomiche, fisiologiche, genetiche e ormonali che differenziano i maschi dalle femmine. Quando, invece, usiamo la parola genere (gender, in inglese) facciamo riferimento ad un costrutto sociale, ad un insieme di convenzioni caratteristiche di ciascuna cultura che codificano i ruoli, i comportamenti e le relazioni tra uomini e donne e all’interno di ciascun gruppo. Questa distinzione è fondamentale per poter parlare di gender bias o pregiudizio di genere, un problema che riguarda tutti gli ambiti delle nostre vite, ma che, nella pratica clinica, si concretizza nelle differenze nel trattamento di uomini e donne con la stessa diagnosi. Queste differenze possono portare ad esiti negativi per la salute di entrambi, discriminando un sesso rispetto all’altro nell’accesso ai servizi sanitari.
La rappresentazione dell’uomo come essere umano “standard” è il sintomo di un problema che affonda le sue radici molto più in profondità. Storicamente, complici il passaggio della Genesi in cui si descrive la creazione della donna a partire dalla costola di Adamo e la tradizione aristotelica, la donna è stata considerata biologicamente inferiore rispetto all’uomo, una sua versione imperfetta. Lo studio della sua anatomia è stato legato per secoli esclusivamente alla sua funzione riproduttiva e la tendenza a patologizzare il femminile ha prodotto lo stereotipo della donna isterica, dal greco ὑστέρα, “utero”, a sottolineare l’esclusiva pertinenza del sesso femminile attribuita a questo disturbo: la donna isterica è, tra le altre cose, irritabile, nervosa, facile allo svenimento e provocante.
Restando in campo psichiatrico, uno studio dimostra che le donne a cui viene diagnosticata la depressione sono il doppio degli uomini. Possiamo capire facilmente dove interviene il gender bias, in questo caso: il dato è legato non soltanto a manifestazioni differenti della patologia tra uomini e donne, ma anche alla diversa disponibilità a parlarne. Gli individui socializzati come donne, infatti, sono più propensi a manifestare e raccontare sintomi di stress, indecisione, ansia, disturbi del sonno e stato d’animo depresso; in sostanza, hanno meno difficoltà a chiedere aiuto. Se a questi risultati si accosta il dato ISTAT secondo cui gli uomini italiani si suicidano tre volte di più delle donne, diventa chiaro come il pregiudizio di genere faccia male alla salute di tutti, non solo a quella delle donne.
Pensiamo ora ad una patologia che nell’immaginario collettivo è tipicamente maschile, l’infarto. Questa concezione comune, smentita dai dati che affermano come gli accidenti cardiovascolari siano la prima causa di morte anche nelle donne, ha fatto sì che i sintomi che tipicamente si manifestano nell’uomo venissero considerati la norma e quelli femminili, anche nel lessico, fossero indicati come atipici. In entrambi i sessi, infatti, il sintomo più frequente dell’infarto è il dolore al petto ma, rispetto agli uomini, le donne presentano più spesso dolore tra le scapole, nausea, vomito, respiro corto. Il risultato? Una diagnosi meno rapida, una terapia meno efficace. Anche gli uomini trarrebbero beneficio da una medicina libera dal gender bias. Se prendiamo in considerazione malattie storicamente viste come esclusivamente femminili, infatti, ci rendiamo conto che il pregiudizio viaggia in entrambe le direzioni: sclerosi multipla, osteoporosi ed emicrania sono l’esempio perfetto di come la sottorappresentazione degli uomini negli studi porti ad una ridotta efficacia delle terapie, dei programmi di screening e della prevenzione nella popolazione maschile.
Parlando di terapie, una domanda sorge spontanea: è possibile che anche la ricerca preclinica, su cellule e animali, sia intaccata dal gender bias? Ebbene, soprattutto nel caso della ricerca preclinica è più opportuno parlare di sex bias: a questi livelli di complessità, infatti, le differenze sono principalmente biologiche. Il dimorfismo sessuale si manifesta in tutte le cellule dell’organismo, non solo quelle dell’apparato riproduttivo: le cellule maschili e femminili rispondono diversamente agli stimoli, presentando differenze importanti nei processi vitali che non dipendono dagli ormoni ma che da essi possono essere influenzate. Stupisce, quindi, che i laboratori che producono le linee cellulari necessarie per condurre una vasta gamma di esperimenti trascurino il sesso delle cellule, spesso vendute senza che questo sia specificato. Anche nella sperimentazione animale il bias viene perpetuato: per lungo tempo si è temuto che le fluttuazioni ormonali del ciclo estrale (analogo al ciclo mestruale) delle femmine di animali da laboratorio potessero portare a risultati eccessivamente variabili. La soluzione più semplice? Non includere gli esemplari di sesso femminile negli studi e generalizzare i risultati ottenuti sui maschi a tutta la popolazione. Ma è davvero un problema, quello del ciclo estrale, o si tratta solo di un preconcetto? Nel 2014 è stata condotta un’analisi su 300 studi eseguiti su roditori che ci ha fornito una risposta univoca: la variabilità dei dati ottenuti dalle femmine, a prescindere dal loro ciclo estrale, non è superiore rispetto a quella dei dati raccolti sui maschi.
L’intelligenza artificiale potrebbe venirci in aiuto nell’arduo compito di smantellare il gender bias? La risposta non è scontata. Questo strumento, infatti, deve prima “imparare”, essere formato: per poter funzionare, l’AI deve attingere a dataset ricchi di fattori confondenti e bias, con il rischio di perpetuarli, ingigantendoli e portando a conclusioni errate e non eque. D’altro canto, si tratta di una tecnologia dal potenziale immenso che, se addestrata correttamente, potrebbe consentirci di mitigare le disuguaglianze, tra cui quelle di genere, integrando le differenze di sesso e genere nell’assistenza sanitaria. La strada per perfezionare l’AI è lunga e tortuosa ma la ricerca procede a passo spedito, guardando anche alle possibili ripercussioni economiche, legali ed etiche di uno strumento così potente.
In definitiva, possiamo continuare ad ammirare le tavole anatomiche di Frank H. Netter? Assolutamente. Possiamo continuare a considerare l’uomo bianco l’essere umano standard? Meglio di no, per la salute delle donne, per la salute di tuttə.
Disclaimer: in questo articolo si parla di gender bias senza far cenno a tutte le altre forme di preconcetti e discriminazioni che con esso si intersecano, primo fra tutti il race bias. Inoltre, si tratta di sex e gender bias in un’ottica binaria, che non rispecchia le sfaccettature della realtà, ma che si rende purtroppo necessaria per una trattazione sintetica.