“Gli occhi grandi a mandorla, selvaggia e timida come una cerbiatta”, orgogliosa e ribelle, nel suo microcosmo di pastori e prinzipales, nell’antica Nuoro di Santu Predu, Grazia Deledda, a 18 anni, è già ambiziosa e visionaria. «Io non sogno la gloria per un sentimento di vanità e di egoismo ma perché amo intensamente il mio paese, e sogno di poter un giorno irradiare con un mite raggio le fosche ombre dei nostri boschi, di poter un giorno narrare la vita e le passioni del mio popolo, così diverso dagli altri, così vilipeso e dimenticato e perciò più misero nella sua fiera e primitiva ignoranza. Sono piccina piccina, sono piccola anche in confronto alle donne sarde che sono piccolissime, ma sono ardita e coraggiosa come un gigante e non temo le battaglie intellettuali».
Eccola 40 anni dopo, con i suoi capelli bianchi e candidi, è un gigante quando viaggia sull’ultimo vagone del treno del Nobel, col marito Palmiro Madesani, verso Stoccolma dove l’accoglierà il segretario dell’accademia svedese Carl Axel Karlfeldt e l’ambasciatore italiano Ascanio Colonna.
La critica letteraria italiana, in prima fila Benedetto Croce, era stata severa con quella piccola scrittrice arrivata a Roma da una Barbagia primitiva, ma con i suoi romanzi, da Canne al vento, a La Madre, a Elias Portolu, a Dopo il divorzio, aveva conquistato il grande pubblico in Francia, in America e nel resto dell’Europa.
Per il suo Nobel si erano mobilitati il barone Karl Bildt, dell’Accademia svedese, e studiosi dell’Accademia dei Lincei di Roma. Con lei anche la scrittrice Selma Lagerlof, che era stata la prima donna a vincere il Nobel per la letteratura, nel 1909, e che definì la Deledda “un’anima sorella”.
Era stata scelta fra 20 candidati, tra cui il poeta greco Kostes Palamas, lo scrittore francese Edouard Estaunié, presidente della societé des gens de lettres, la romanziera americana Edith Wharton, il tedesco Thomas Mann, l’autore della Montagna incantata e di Morte a Venezia, la milanese Ada Negri, considerata la poetessa prediletta da Mussolini, e Cesare Pascarella, il cantore di Trastevere, sostenuto da Benedetto Croce. E tanti anni prima, aveva ammaliato anche Carducci: «Pascarella ha elevato la poesia popolare ai fastigi di un’epopea».
Tra i grandi esclusi in Italia, anche il drammaturgo Luigi Pirandello e Gabriele D’Annunzio che allora era diventato il poeta ufficiale del Regime.
È il 10 dicembre del 1927, una giornata gelida a Stoccolma. Henrik Schuck, membro dell’accademia svedese, consegna il Premio Nobel a Grazia Deledda. «Il suo stile, sposando il giudizio di un critico letterario italiano, è quello dei grandi maestri dell’arte del narrare ed ha quei tratti caratteristici che sono comuni a tutti i grandi autori di romanzi. Nessuno oggi in Italia scrive romanzi che, per vigore di stile, potenza d’arte, struttura e importanza siano paragonabili con alcuni, anche fra gli ultimi, lavori di Grazia Deledda, come La madre e Il segreto dell’uomo solitario. Nell’arte di dipingere la natura sono pochi i letterati europei che possono starle alla pari. La natura che essa descrive ha i contorni semplici e grandiosi del paesaggio antico».
Grazia Deledda, avvolta in un goffo cappotto col bavero impellicciato, ricorda il suo mondo antico, la sua isola con i suoi sogni giovanili, davanti ai cattedratici dell’Accademia. «Sono nata in Sardegna, la mia famiglia, composta di gente savia ma anche di violenti e di artisti primitivi, aveva autorità e aveva anche una biblioteca. Ma quando cominciai a scrivere, a 13 anni, fui contrariata dai miei. Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi, correggilo e mandalo per la strada dei monti; se lo trovi nella poesia per la seconda volta, puniscilo ancora; se va per la terza volta, lascialo in pace perché è un poeta. Senza vanità anche a me è capitato così. Avevo un irresistibile miraggio del mondo, e soprattutto di Roma. E a Roma, dopo il fulgore della giovinezza, mi costruii una casa dove vivo tranquilla col mio compagno di vita ad ascoltare le ardenti parole dei miei figli giovani. Ho avuto tutte le cose che una donna può chiedere al suo destino, ma grande sopra ogni fortuna la fede nella vita e in Dio».
La scrittrice nuorese si affida poi alla sua poetica: «Ho vissuto coi venti, coi boschi, con le montagne. Ho guardato per giorni, mesi e anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali, le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo».