Quando la Germania ha assunto la Presidenza di turno dell’Unione Europea nel secondo semestre 2020, una delle priorità annunciate era l’apertura della Conferenza sul Futuro dell’Europa. Questo obiettivo era in linea con quanto aveva promesso Ursula Von der Leyen nella primavera 2019 quando, su impulso della Merkel, si era candidata alla carica di Presidente della Commissione Europea: «Voglio che i cittadini possano dire la loro nell’ambito di una conferenza sul futuro dell’Europa da avviare nel 2020 per una durata di due anni. La conferenza dovrebbe riunire i cittadini (compresi i giovani, cui andrebbe attribuito un ruolo importante), la società civile e le istituzioni europee in qualità di partner paritari. Essa andrebbe preparata adeguatamente, fissandone chiaramente la portata e gli obiettivi, di comune accordo tra il Parlamento, il Consiglio e la Commissione. Sono pronta a dar seguito a quanto verrà deciso, se opportuno anche mediante un’azione legislativa. Sono inoltre aperta a eventuali modifiche del trattato. Qualora venisse proposto un membro del Parlamento europeo per presiedere la conferenza, darò la mia piena adesione a questa idea».
Parole importanti che configuravano un disegno ambizioso, reso al contempo possibile e necessario dall’uscita ormai decisa del Regno Unito dalla UE, a seguito del referendum del 23 giugno 2016.
Perché un disegno possibile? Perché per anni Londra aveva ammonito i partner: «Fin qui va bene, oltre no». E Cameron aveva ottenuto assicurazioni che l’impegno dei Trattati per una “sempre più stretta unione” non avrebbe più riguardato il Regno Unito. Assicurazioni meschine ed autolesioniste, pur di salvaguardare la convivenza. La scommessa del premier conservatore di riuscire a vincere il referendum, forte delle garanzie estorte, si è dimostrata una delle più colossali beffe della storia europea. Nessuno è ovviamente lieto per questo esito. Ma c’era anche un altro lato della medaglia. L’Europa non avrebbe più dovuto guidare con il freno a mano tirato. Senza il piombo nelle ali, si poteva forse ricominciare a volare.
Perché un disegno necessario? Perché l’Europa post Brexit assomiglia tremendamente al Senato romano, magistralmente descritto da Costantino Kafavis: «E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? Era una soluzione quella gente». Ossia, non è più sostenibile uno “status quo” che, per non inquietare euroscettici e sovranisti, faccia inesorabilmente scivolare l’Europa ai margini dei grandi discorsi sull’avvenire. Se non si progredisce, si ruzzola all’indietro. Bisognava invece ritornare a guardare avanti, con coraggio, determinazione ed anche un minimo di autostima sulla capacità di mantenere la rotta, pur in acque tempestose.
Aveva dato corpo a questa visione Emmanuel Macron con il suo discorso alla Sorbona del 26 settembre 2017: «L’unico modo per garantire il nostro futuro è ricostruire un’Europa sovrana, unita e democratica».
Com’è sua abitudine, la Merkel ci ha pensato a lungo, soppesando tutti i pro e i contro. Poi ha deciso, lanciando la candidatura Von Der Leyen, con la promessa di una grande Conferenza sul Futuro dell’Europa. Pronte le due perfino a superare il tabù di ulteriori modifiche dei Trattati, dopo la lunga stagione, dal progetto Spinelli del 1984 a Lisbona 2007, di esercizi costituzionali sempre inesorabilmente ridimensionati dal conservatorismo dei metodi intergovernativi (ed anche, ahimè, della Corte Costituzionale di Karlsruhe).
Era più o meno tutto pronto: la Conferenza si sarebbe dovuta aprire con una cerimonia il 9 maggio 2020, settantesimo anniversario della Dichiarazione Schuman, ed avrebbe dovuto aprire i lavori sotto la Presidenza tedesca nel secondo semestre dell’anno, per concludersi, dopo un biennio, sotto la Presidenza francese. In concomitanza con le elezioni presidenziali della primavera 2022, ove Macron conterebbe ancora di vincere alla testa del fronte anti-sovranista ed europeista. Insomma, una versione del XXI secolo della “locomotiva franco-tedesca”.
Di rinvio in rinvio, la Presidenza tedesca si è però conclusa senza l’avvio della Conferenza.
Colpa del Covid? Anche ma non solo. Sembra infatti che si sia consumato in quei mesi uno scontro feroce sulla designazione del Presidente della Conferenza, con la ex premier danese Helle Thorning-Schmidt, scialba candidata socialdemocratica della dimensione intergovernativa, proposta per bloccare la designazione, che stava maturando al Parlamento Europeo, di Guy Verhofstadt, un liberale belga accusato di essere troppo federalista. La “promessa da marinaio” non è solo allora della Merkel, ma anche di Ursula, che aveva dichiarato: «Qualora venisse proposto un membro del Parlamento europeo per presiedere la Conferenza, darò la mia piena adesione a questa idea».
Ora il nodo della presidenza della conferenza è stato superato con il compromesso della collegialità dei maggiori organi dell’Unione (Consiglio, Commissione e Parlamento), che dovrebbe permettere il lancio della Conferenza il prossimo 9 maggio, Giornata dell’Europa. Esattamente un anno dopo quanto previsto.
Purtroppo, nel pacchetto faticosamente elaborato dalla Presidenza portoghese affiorano arretramenti ed ambiguità che sollevano numerose perplessità nei ranghi dell’ortodossia federalista. In questi giorni, per esempio, il Consiglio Italiano del Movimento Europeo sta chiedendo al nuovo Governo Draghi di non accettare compromessi al ribasso, rilanciando invece la prospettiva di una “fase costituente”, direttamente ad opera del Parlamento Europeo, in “alternativa alla paralisi intergovernativa”, capace di annacquare ogni proposito di riforma. Giustissimo, come sarebbe sacrosanto superare una volta per tutte la logica dell’unanimità e dei veti nazionali.
Ma….
Qualcuno potrebbe ricordare che “maiora premunt” e che spesso “il meglio è nemico del bene”. Qualcuno potrebbe citare l’emergenza pandemia – e connessa recessione – per invocare realismo e pragmatismo in una fase estremamente delicata, ove vi è molto in ballo. Con la colossale apertura del Recovery Fund e la prospettiva di una sua trasformazione in sportello permanente, per dare ben diversa forza alla politica economica – e non solo monetaria – dell’Unione Europea. Qualcuno parla al riguardo di “momento hamiltoniano”, per suggerire, in analogia agli Stati Uniti, come la reale integrazione politica, il punto di non ritorno possa derivare da innovative decisioni finanziarie e di bilancio più che dalle delibere di assemblee costituenti. Se cioè l’Unione emetterà titoli di debito, disporrà di risorse proprie e ritornerà al metodo comunitario nella gestione di questa drammatica congiuntura, forse saremo più vicini agli Stati Uniti d’Europa di quanto potremmo sperare da un pur comprensibile atto di orgoglio istituzionale del Parlamento Europeo.
Insomma, il cuore pende dalla parte dei puri mentre la ragione tende a sostenere le tesi dei pragmatici. Anche a costo di ridurre ad un anno la durata della Conferenza stessa per non perdere la scadenza della primavera 2022, sotto Presidenza francese e nella stagione delle Presidenziali della possibile riconferma di Macron …
Lancinanti dilemmi, di fronte ai quali occorrerebbe comunque non perdere di vista un’occasione importantissima che si sta per dischiudere, per dare sostanza al coinvolgimento diretto del popolo europeo: il varo a Bruxelles di una piattaforma “online” multilingue, che permetterà una traduzione in tempo reale degli interventi del pubblico nei momenti di partecipazione “digitale” ai lavori della Conferenza.
Non so se l’esperimento riuscirà, vale però la pena organizzarsi per partecipare attivamente e costruttivamente.
Quanti si presero la briga di salutare di persona nel 1979 a Strasburgo l’avvio del primo Parlamento Europeo a suffragio universale diretto non potranno mancare a questa nuova sfida.
Foto di apertura: Il Parlamento Europeo di Frederic Köberl su Unsplash