La lucida disamina di Giancarlo De Carlo del 1968 dimostrava ampiamente come, già allora, l’Università necessitasse di nuovi modelli insediativi. Nel tempo, la natura stessa dell’Università è profondamente mutata così come il suo ruolo all’interno del contesto sociale ed economico.
Ad esempio, la componente della didattica, pur mantenendo la propria centralità, non è più preminente rispetto alla ricerca, all’alta formazione e al trasferimento tecnologico.
Il modello più recente che appare tagliato per contesti ad alto sviluppo economico come quello europeo si definisce “multicampus“ o “a rete” ovvero per poli didattici e di ricerca fortemente interrelati. Secondo questa accezione i “poli”, non sono formati solo da uno o più corsi di laurea, ma anche da strutture di ricerca, organizzati in Dipartimenti, che assumono obiettivi comuni nel campo della formazione e i cui docenti individuano nella collaborazione e nella ricerca interdisciplinare un’occasione di avanzamento della propria disciplina.
Sempre più spesso poi l’insediamento universitario è la matrice di parchi tecnologici o distretti per l’innovazione per cui acquisisce una dimensione territoriale più ampia e complessa tanto da richiedere una sorta di Piano Regolatore capace di confrontarsi con il Piano strutturale della città.
In questo senso, non è più tanto la residenza di studenti, ricercatori e docenti a caratterizzare i nuovi campus quanto la capacità di includere nuovi servizi “smart” attraenti, attrezzature 4.0 di terziario avanzato – quali spin-off, start up, co-working – che generino ricadute occupazionali e imprenditoriali giovanili e soprattutto connotino lo spazio come luogo capace di attrarre nuove intelligenze favorendo l’internazionalizzazione delle sedi.
Educazione permanente di livello universitario
In un’ottica di sviluppo coordinato del territorio, l’istituzione universitaria deve anche assolvere alla funzione di integrare le culture “specifiche” con la più generale cultura “sociale”. Esiste infatti una richiesta di sviluppo culturale applicato ai settori produttivi in espansione e contemporaneamente si va affermando in maniera sempre più prepotente una richiesta di cultura di base di livello universitario che interessa strati sempre più vasti della popolazione. Un’università che permetta di soddisfare queste due esigenze, troppo spesso considerate antitetiche, rappresenta il volano per un reale sviluppo – economico e culturale – del territorio senza rischi di specializzazioni monofunzionali sempre pericolose sia da un punto di vista produttivo che sociale.
Campus e rigenerazione urbana.
I campus che abbiamo realizzato a Cremona, a Forlì, a Novara; hanno una caratteristica comune: sono tutti localizzati in quell’area di
mezzo, al limite più esterno del centro storico (generalmente ex-orti) in cui nell’Ottocento sono state realizzate le grandi attrezzature civili della città borghese.
Questo per due motivi: in primo luogo perché sono aree dimensionalmente rilevanti e quindi adatte all’insediamento di una macro-funzione primaria come quella universitaria.
In secondo luogo perché ospitano grandi complessi comunitari abbandonati di proprietà pubblica.
I Campus diventano così l’occasione per una radicale riorganizzazione delle attrezzature urbane: una gigantesca operazione di rigenerazione urbana, di “rammendo” direbbe Renzo Piano, che interessa sia le città di media dimensione che le aree metropolitane.
Il recupero delle periferie si gioca proprio in questa area di mezzo favorendo l’insediamento di funzioni primarie “passanti” che svolgano il ruolo di “ponte” tra i tessuti già consolidati e la fascia più esterna. In questo modo spezzoni significativi di attività centrali trasmigrano per fare da snodi di connessione tra le varie parti della città. Il governo di questo processo di trasmigrazione è sicuramente uno dei temi centrali su cui la cultura architettonica è chiamata a confrontarsi da subito individuando e tenendo sotto osservazione casi sperimentali per ricavarne una metodologia d’intervento riapplicabile.
Tema conseguente è quello delle metodologie di riuso delle grandi attrezzature pubbliche che hanno segnato l’avvento dello stato unitario nei 160 anni trascorsi. Allora avevano rappresentato la testimonianza fisica della volontà di uno Stato nascente di autorappresentarsi attraverso un rinnovato apparato di edifici di servizio alla collettività. Il recupero e il riuso di questo apparato, implementato poi durante il fascismo, è uno dei temi centrali – non solo disciplinari o economici – ma direi etici e collettivi – di questo momento storico che non può essere lasciato al caso per caso.
Consentirebbe di ritrovare un filo comune – un progetto “politico” condiviso – a questo disorientato paese perennemente alla ricerca di un’identità nazionale.
È anche una grande occasione economica per reindirizzare l’intera filiera dell’edilizia al fine di coniugarla con un progetto di sviluppo alternativo del paese basato sulla valorizzazione dei territori, sul recupero sostenibile del patrimonio monumentale esistente senza consumo di nuovo territorio, sulla riscoperta e il rinnovamento delle abilità artigiane e delle produzioni di qualità.
Se consideriamo, come sottolineato dal “Piano Nazionale per la Rigenerazione Urbana Sostenibile” che «allo stato e agli enti locali afferiscono (…) beni immobiliari valutati oltre 400 miliardi di euro, più del 20% del nostro PIL: una ricchezza straordinaria e mal gestita, che risulta avere modesti rendimenti a fronte di costi di gestione da due a tre volte superiori a quelli dei privati». L’obsolescenza di questo gigantesco patrimonio edilizio pubblico e il recupero anche sociale sono temi che coinvolgono direttamente la nostra responsabilità civile, politica e professionale.
Da ultimo, ma non meno importante, è anche uno dei temi chiave della cultura urbanistica-architettonica contemporanea specie in
merito alle metodologie di conservazione e riconversione delle attrezzature della città borghese otto/novecentesca. È un apparato dimensionalmente cospicuo, generalmente localizzato nella fascia più esterna dei centri storici o immediatamente al di fuori, in quella corona circolare che, come abbiamo visto, è chiamata a svolgere una funzione fondamentale nel processo di “riaggancio” di intere aree periferiche della città contemporanea.
Il carattere che accomuna queste grandi attrezzature collettive – caserme, ospedali, carceri, ex-monasteri riconvertiti in caserme, macelli – spesso realizzate su “catalogo” con un sobrio linguaggio eclettico post-unitario, è quello di essere state progettate, realizzate e utilizzate come grandi recinti impermeabili ospitanti funzioni specialistiche programmaticamente chiuse in se stesse e separate dal contesto cittadino. Come tali, proprio a causa della dimensione, della conformazione e dell’uso, frequentemente hanno costituito un punto di forte discontinuità del tessuto urbano che ha ostacolato lo sviluppo armonico di interi quadranti di città. Laddove sarebbe stata necessaria una saldatura tra nuclei storici e espansioni moderne, hanno rappresentato spesso un fattore di scollamento tra parti di città. In molti casi, a causa del lungo abbandono, sono stati addirittura rimossi dalla memoria collettiva rappresentando dei “buchi neri” inaccessibili.
La metodologia di intervento deve dunque ripartire da questa doppia speculare esigenza – apparentemente contraddittoria – da un lato salvaguardare il carattere di questi complessi – spesso introflessi e “crostacei” – dall’altro fare sì che vengano reimmessi nel circuito delle attività contemporanee divenendo sistemi “passanti”, attraversabili e permeabili, capaci – sia per funzione che per struttura degli spazi pubblici – di rilegare intere parti di città.
Riaprire questi recinti senza snaturarne l’essenza è anche la metafora di una società che diviene più solidale, consapevole e democratica e, come tale, capace di reinterpretare la propria storia senza negarla o, peggio, ignorarla.