Con il suo articolo su “Tutti Europa ventitrenta”, Maurizio Serra ha inquadrato in maniera magistrale la personalità di Viktor Orban e la sfida che sta lanciando all’Unione Europea.
Mi è piaciuta soprattutto la sottile analisi delle peculiarità ungheresi, di un Paese con tanta storia e con poca voglia di omologazione. Ricordo, per esperienza diretta, l’orgoglio con cui a Budapest (prima di Orban) si definivano l’angolo più settentrionale dell’Europa centro-meridionale, con reminiscenze mediterranee (Trieste era un loro porto, sino a poco più di un secolo fa).
Non ne deriva però, per l’autore, la difesa o la giustificazione di uno spregiudicato tribuno della plebe, quanto la domanda se, con il limitato margine di manovra fornito dall’attuale assetto istituzionale europeo, la linea dell’intransigenza non stia in realtà “facendo il gioco” dell’assertivo sovranista.
La questione è certamente seria e complessa. Servono quindi “avvocati del diavolo”, che non si fermino ai luoghi comuni e sappiano invece analizzare lucidamente i “pro” e i “contro” delle opzioni disponibili. Grazie, quindi, per questa voce, apparentemente “fuori dal coro”, ma molta attenta al concreto atteggiarsi di una risposta efficace. Sono tanti, in effetti, gli spunti da riprendere, sul piano tattico, per esercitare la necessaria prudenza nella trattazione del dossier. Primo fra tutti, una gestione accorta dei fondi del Recovery Fund destinati all’Ungheria.
Rimane però, a mio giudizio, un punto fermo, che impone rigore e chiarezza estremi sul piano strategico. Dobbiamo continuare a considerare un fondamentale interesse europeo quello di profilarci – all’interno, come all’esterno dei confini dell’Unione – quali paladini dell’”ingerenza virtuosa” e – latu sensu- della “responsabilità di proteggere”, di una concezione delle relazioni internazionali che si distacchi quindi dalla “statolatria” di un tempo, per rifondarsi sui diritti e sulle libertà individuali, da tutelare ovunque e comunque.
Ricordiamocelo soprattutto quando – giustamente – non accettiamo il ritorno dei talebani in Afghanistan e siamo alquanto categorici nel condannare il pasticciato disimpegno americano.
Se questo deve essere il momento di fondare davvero una seria “autonomia strategica europea”, per metterci in condizione di lanciare sul piano internazionale messaggi e azioni conformi ai nostri valori ed ai nostri interessi, non basterà dedicarsi ai pur indispensabili strumenti dell’”hard power” tradizionale.
Occorrerà anche rinvigorire e diffondere una nostra capacità-guida quali credibili “standard setter” sul piano globale. Non solo per la difesa della dignità delle persone e dell’inviolabilità dei diritti umani ma anche per le altre sfide dei nostri tempi, dal cambiamento climatico alle migrazioni, alle vaccinazioni ed alla digitalizzazione.
E’ un “soft power” complicato ma accattivante, per il quale avremmo buone basi e grandi potenzialità. Se solo riuscissimo, con tatto e “forza tranquilla”, a uscire dalla palude della “non ingerenza negli affari interni” quale limite invalicabile di ogni seria politica di progresso e non discriminazione.
Cominciando quindi dall’interno dell’Unione Europea, dove hanno titolo a partecipare solo coloro che ne accettano senza riserve i valori fondanti. Valgono al riguardo le splendide parole del Presidente Mattarella nel suo ispirato discorso alla Sorbona del luglio scorso: “Le solenni decisioni assunte da ciascun popolo al momento dell’adesione al progetto europeo, non possono essere contraddette, se non al prezzo della drastica decisione dell’abbandono”. Ringrazio Fabrizio Summonte per avercelo ricordato.