L’illibertà di stampa è il revanscistico progetto del Governo in carica di pescare dal fondo del barile un’idea, sia pure vaga, di cultura di destra, stroncando quella che considerano l’egemonia tradizionale della sinistra. Ecco perché dal giorno dell’insediamento in avanti, Giorgia Meloni ha piazzato, secondo la logica di uno spoil system esasperato, un corteo di fedelissimi nei posti chiave di quella che viene considerata una cultura alta, puntando nelle nomine alla Rai su fedeli scherani. Un enorme senso di frustrazione permea questo modesto prototipo di “presunto rinascimento di destra”.
Se la riconferma di Giordano Bruno Guerri al Vittoriale dannunziano appare giustificata dall’esperienza sul campo dello scrittore e divulgatore, come giustificare nel merito la nomina del polemista televisivo Alessandro Giuli al Maxxi di Roma vista la palese incompetenza artistica, probabilmente pari a quella di Pierangelo Buttafuoco alla Biennale di Venezia! Ma questi non sono servi sciocchi, ma furbissimi servitori di corte, pronti ad andare in televisione e buttarla in caciara con le leggi del relativismo per cui Toti è come Errani, appunto truccando subdolamente le carte. A Rainews ogni pronunciamento della Meloni merita una diretta e chi si ribella (non facciamo il nome per non arrecare ulteriore danno) si vede controllare ogni virgola del servizio. Non più par condicio, ma soffocante impar condicio secondo un modello di restaurazione generale che parte dal Ministro Nordio, un ex magistrato che odia i suoi colleghi.
Dall’abolizione parziale delle intercettazioni al vago progetto di infierire ancora di più sui giornalisti con prospettive di carcere e di querele temerarie. Qualche magistrato esasperato cita ed evoca, anche riguardo alla separazione delle carriere dei magistrati, l’archetipo della P2 di Gelli. Chi tocca i fili del potere muore. Ma guardiamo più in alto, al tentativo di vendetta della presunta democrazia americana verso Julian Assange, che scoperchiando il sarcofago di immondi e irriferibili segreti di Stato, ha mostrato al mondo l’ipocrisia della CIA e di un impero che, per sopravvivere, esporta guerre, per interposto stato (Ucraina, tra gli altri), e semina golpe: una tattica di sopravvivenza che vale per l’industria delle armi e per quella indotta della ricostruzione.
Se ci battiamo perché i giornalisti italiani non vengano condannati a mesi di carcere, qui la posta è più grossa perché si vorrebbe far scontare ad Assange 175 anni di prigione, come quattro/cinque ergastoli insieme, un vitalizio in galera e senza l’eventualità di uno sconto di pena, con un palleggio di responsabilità diplomatiche non ancora definitivamente sciolte. Assange è l’icona di un giornalismo libero e non condizionato, nella nostra visione insieme uno svelatore, un contro-informatore e un eroe della libera stampa. Assange è un morto che cammina. Colpirne uno per educarne cento.
Il capitalismo ibrido ha imparato a usare gli slogan degli altri e a metterli a regime con inaudito cinismo. Oggi i giornalisti italiani, in passato minacciati o brutalizzati dalle mafie, si devono guardare dallo Stato nell’espressione dell’attuale Governo con il suo ostinato proposito restaurativo. L’ordinamento Costa che impedisce la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare va in diretta contraddizione con le interpretazioni delle Corti europee che formalmente difendono la libertà di espressione. Giorgia ignora che il giornalismo è il cane di guardia del potere. Preferirebbe che fosse un semplice cane da riporto.