La corsa dell’Europa nella costruzione di un’autentica economia circolare prosegue a zig-zag. Tra i punti più controversi del Continente a 27, l’equilibrio tra materie consumate e materie riciclate è diventato il più precario. Le analisi dei migliori Istituti di ricerca concordano sul fatto che i tempi per un’economia sostenibile indicati dalla prima versione del Green deal sono da rivedere. In particolare per due ragioni. La prima riguarda il consumo di materie prime necessarie all’economie di Paesi come Ungheria, Polonia, Slovenia, Romania che hanno bisogno di raggiungere target produttivimiglori degli attuali. La seconda è che fare del riciclo delle materie il principio fondante intorno al quale costruire un’economia senza sprechi va bene er Paesi con economie mature come Francia, Germania, Italia, Spagna, Svezia. Gli altri Paesi, evidentemente, non possono applicare quel principio perché i sistemi di produzione non prevedono tecnologie adeguate allo scopo. Metodi così avanzati da abbassare la quantità di materie che finiscono come scarti.
L’analisi dell’Agenzia per l’Ambiente
Nonostante lo scontro tra queste due ragioni principali, qualche passo avanti è stato fatto. Le aziende, in media, hanno aumentato il grado di consapevolezza della realizzazione di un’economia del risparmio, ma hanno davanti margini di miglioramento straordinari. L’Agenzia Europea per l’Ambiente recentemente ha analizzato a fondo i comportamenti tanto dei governi, quanto delle imprese, stabilendo che l’Europa consuma più materie e produce più rifiuti rispetto ad altre aree del mondo. Riconosce, l’Agenzia, che le produzioni nazionali sanno ricavare efficienza dalle materie che usano, ma sostiene poi che (in media) solo la metà dei rifiuti prodotti viene riciclata. Conclusione, l’ambizione per un economia continentale più sostenibile non può basarsi su uno scarno 12% di riciclo. Il problema svetta in testa a qualsiasi ragionamento politico o industriale sull’Europa che verrà.
Chi cambia, cosa
Le conseguenze di questo “guado duale” spesso vengono dissimulate dai governi e dalle classi dirigenti, ma hanno conseguenze pesantissime sull’ambiente, sulla collettività per i costi da sostenere, sulle politiche per il clima, oltre a creare nuove diseconomie all’interno dell’Ue. A nessuno sfugge che la grande partita dell’accaparramento delle materie prime si stia giocando in uno scenario globale che preclude a nuove ostilità tra potenze. A mio parere, la linea di confine tra disponibilità di risorse e loro riutilizzo sta nella capacità di investire su tecnologie importanti e strategiche capaci di non far diventare rifiuto ciò che è stato già usato e comprato a caro prezzo. Chi non investe o lo fa in ritardo diventa causa del proprio declino. Ma a questo proposito, spesso, si parla anche di modelli di consumo da rivedere. Modelli universali che portano i cittadini/consumatori a sbarazzarsi dei beni acquistati senza troppo problemi. È un aspetto da non sottovalutare, abituati, come siamo, a renderci la vita easy. A dirla tutta, non c’è nemmeno bisogno di scomodare i sociologi del consumo per capire che il primo passo per un’economia del recupero dei beni deve partire dal mondo della produzione, dal markenting, dalla politica, che hanno il vero potere di non spingere più tutti noi a consumare all’infinito ciò che si trova nel Pianeta. Il guaio più grande è che il tempo non è un alleato affidabile.